Approvata la delega per la riforma del terzo settore. Norme più rigorose e maggiore sostegno a una realtà sempre più vitale nel paese

Di Paolo Beni, Arci e deputato PD.

A quasi un anno dalla presentazione delle linee guida e dopo un ampio dibattito pubblico e un intenso lavoro in Commissione Affari Sociali, la Camera ha approvato la legge delega di riforma del terzo settore. Un provvedimento che non è azzardato definire di portata storica, da tempo atteso dalle oltre trecentomila orga-nizzazioni sociali attive nel paese con un milione di lavoratori e 4 milioni e mezzo di volontari. È proprio la rilevanza assunta in Italia dal terzo settore a rendere necessario un intervento organico sulla corposa
legislazione di riferimento, disomogenea e in parte non più adeguata, allo scopo di superare la frammentazione delle singole norme, aggiornarle e armonizzarle alla luce di nuove esigenze e di vecchie lacune, tutelare l’identità e l’autonomia delle formazioni sociali,
incentivarne l’azione con idonei strumenti di sostegno. Il testo proposto inizialmente dal governo è stato ampiamente modificato e
migliorato dalla Camera, grazie anche al metodo partecipativo adottato nel lavoro parlamentare, con decine di audizioni e un costante confronto con gli enti del terzo settore. Dialogo che sarà bene proseguire anche nella fase di preparazione dei decreti delegati. Molti gli aspetti innovativi presenti nella riforma. Anzitutto il superamento della rappresentazione frammentata del terzo settore e della confusione
terminologica con cui è stato finora definito. Per la prima volta in un testo di legge si definisce con precisione il terzo settore elencando natura, identità, finalità, campi di attività degli enti, nonché principi e criteri che ne ispirano l’azione, tracciando così il perimetro
che delimita e identifica questi enti nel campo ben più ampio dei soggetti privati senza fini di lucro riconducibili al Libro I del Codice civile. Opportunamente la delega interviene anche sulla disciplina del Codice civile in materia di istituzioni private senza fini di lucro, semplificando le procedure di accesso alla personalità giuridica, ribadendo l’autonomia statutaria degli enti ma anche i loro obblighi in relazione alla responsabilità verso terzi. La delega risolve in modo convincente anche un annoso dibattito: se la normativa sul terzo settore debba basarsi sulla natura degli enti oppure sulle loro attività. La nuova disciplina dovrà disporre infatti criteri vincolanti sia in merito alla forma costitutiva e al possesso dei requisiti da parte degli enti, che alle attività da essi svolte, alla loro coerenza coi fini statutari e all’impatto sociale positivo prodotto. Approccio sicuramente corretto, che in sede di stesura dei decreti attuativi richiederà però molta attenzione nel differenziare e graduare vincoli e oneri burocratici tenendo conto della grande diversità dei soggetti coinvolti, per forma giuridica, dimensione economica e organizzativa, numero di aderenti, tipologia di attività. È evidente che le piccole associazioni non potrebbero sostenere i medesimi oneri delle grandi. Positiva anche la scelta di andare a superare l’attuale frammentazione del sistema di accreditamento prevedendo che l’iscrizione a un unico registro nazionale del terzo settore sia condizione
necessaria per l’accesso a benefici fiscali o normative di favore. Registro unico che dovrà essere necessariamente articolato, sia per sezioni regionali che per settori corrispondenti a specifiche normative di specie o tipologie giuridiche, così come il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, a cui viene affidata la gestione del registro, dovrà coordinarsi con gli altri ministeri coinvolti.
Molto discussa è stata la parte della legge dedicata all’impresa sociale, contestata da alcuni in quanto l’apertura ai soggetti profit, e in particolare il venir meno per questi enti del totale divieto di distribuzione degli utili, rischierebbe di snaturare l’identità non lucrativa che è tratto distintivo e unificante dei diversi enti del terzo settore. Non credo che sia questo il problema e ritengo invece positiva la crescita nel terzo settore di esperienze a più marcata vocazione imprenditoriale capaci di attrarre capitali di investimento, purché sia salvaguardato con opportuni vincoli il carattere non speculativo e la preminente vocazione sociale di queste imprese. Su molti aspetti, per valutare la reale efficacia della riforma sarà comunque determinante vedere il dettaglio dei decreti legislativi di attuazione. Come ad
esempio sul riordino delle agevolazioni fiscali, materia da sempre controversa sulla quale andranno sciolti nodi delicati come quello della definizione di ente non commerciale e delle attività economiche accessorie e connesse alle finalità istituzionali. Questione rilevan-
te, perché quelle attività sono il mezzo con cui tantissime associazioni prive di sostegno pubblico autofinanziano le proprie iniziative di utilità sociale. Un’altra novità significativa, a cui è dedicato l’articolo 7 della delega, è la particolare attenzione alle funzioni di
vigilanza e controllo affidate al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Sarebbe stata forse preferibile la soluzione di un’autorità indipendente di vigilanza, ma l’aver dato rilevanza a questo tema è comunque una scelta positiva, a patto che la struttura deputata venga dotata di mezzi adeguati e operi attraverso un costante confronto col mondo del terzo settore attraverso l’Osservatorio rappresentativo degli enti. Bisognerà semplificare gli obblighi formali e sostanziali, meno regole ma più chiare e sostenibili, comprensibili a tutti.
Molto bene la scelta di introdurre, a questo proposito, la possibilità dell’autocontrollo affidato alle stesse organizzazioni rappresentative degli enti. È evidente infatti che la riforma sarà tanto più efficace proprio se saprà investire sulla responsabilizzazione dei soggetti
sociali, nell’ambito di un rapporto leale e trasparente con le istituzioni. E soprattutto se saprà valorizzare insieme alle potenzialità economiche e occupazionali del terzo settore anche la sua vocazione civica e solidaristica, quella dimensione partecipativa e popolare che rappresenta il tratto più peculiare e il valore aggiunto dell’esperienza italiana di terzo settore. Miglioramenti sono ancora possibili
nel prossimo passaggio in Senato, ad esempio precisando meglio l’oggetto della delega su alcuni punti relativi al codice civile, alla materia fiscale, al servizio civile, ai centri di servizio per il volontariato.

Andranno poi chiarite le incognite che gravano sulla disponibilità di risorse finanziarie adeguate a garantire la piena attuazione degli intenti dichiarati nella legge. Ma nel complesso siamo in presenza di un disegno coerente che può dare ulteriore slancio e sostegno
nonché maggiore trasparenza a tutto il terzo settore. Sulla base di queste valutazioni sarebbe stato auspicabile un più ampio consenso
parlamentare nel voto finale alla Camera. A parte la preannunciata opposizione della Lega, non era proprio scontato il voto contrario di Sel e Cinque Stelle, su cui ha influito soprattutto il giudizio pesantemente negativo sulla parte della legge relativa all’impresa sociale.
Secondo queste forze politiche la delega, pur contenendo diverse misure positive per gli enti del terzo settore, avrebbe come principale obbiettivo l’apertura delle porte dell’impresa sociale alle società di capitali, snaturando così la stessa identità no profit del terzo settore e facendone uno strumento per l’assalto del mercato ai servizi sociali e la conseguente demolizione del welfare pubblico.
Lettura discutibile, evidentemente ispirata da esigenze di posizionamento politico, ma che non trova giustificazione nell’effettivo contenuto del testo. È vero che nella legge c’è molta attenzione alla dimensione economica del terzo settore, ma è pur vero che in più parti si puntualizzano requisiti e limiti che devono caratterizzare la gestione dei servizi da parte di questi enti. Non è nello sviluppo
del terzo settore che risiede il rischio di un attacco alla dimensione pubblica del welfare. Al contrario il ruolo degli enti
di terzo settore nell’offerta di servizi può contribuire a rafforzare il welfare pubblico ed elevarne la qualità, a patto che si inserisca dentro una cornice di regole chiare e nell’ambito di un sistema nel quale il soggetto pubblico mantiene saldamente in mano l’indirizzo politico, la regia e la programmazione degli interventi, proprio a garanzia della sua dimensione universalistica.