La costruzione di un mondo di pace è responsabilità di tutti

Di don Francesco Soddu direttore della Caritas Italiana.

L’11 settembre 2001, una data che ha reso evidenti nuove contrapposizioni dopo le speranze precedenti. Lo scenario entro cui collocare il fenomeno del terrorismo internazionale non può non considerare alcuni frutti velenosi del progresso umano, sempre più evidenti: aumento delle disuguaglianze, accaparramento delle risorse, conflitti. Papa Francesco definisce in modo sintetico questo scenario «terza guerra mondiale a pezzi». Ogni pezzo ha ricadute e interconnessioni tangibili, sempre più incidenti sulla vita delle persone a livello globale. Lo dimostrano le stragi del 13 novembre a Parigi, che chiedono a tutti noi uno sforzo di discernimento, di decifrazione dei segni dei tempi per interpretare i cambiamenti nello scenario internazionale. La reazione monodirezionale al terrorismo, a cui già si assiste, fa saltare ruolo e utilità delle istituzioni internazionali e avvia un’escalation reattiva senza regole né limiti, se non quelli fissati da chi la promuove. Gli appelli per una pace fondata sul diritto dei popoli cadono nel vuoto. L’idea che il mondo non possa fare a meno della guerra si diffonde. Ad essa si adeguano le scelte di molti governi, servizi di intelligence, prevenzione e repressione sui fronti interni, fino a misure selettive di identificazione delle persone, in base alla loro nazionalità o alla loro confessione religiosa. Senza computare le conseguenze nel tempo di tali scelte nelle relazioni tra persone e popoli. Certo, siamo di fronte ad un conflitto frammentato e globale, che coinvolge in particolar modo il mondo musulmano, in Medio Oriente e altrove. Se i cristiani sono le vittime più numerose, le persecuzioni colpiscono anche altre minoranze etniche e religiose in varie parti del mondo, popoli che senza alcuna colpa si trovano ad abitare un territorio dove non sono ‘voluti’ dalla maggioranza. Le stragi e le persecuzioni sono portate alla ribalta dei media internazionali dagli attentati, dalle brutali torture e decapitazioni eseguite dagli uomini dell’ISIS, e non solo. Molta dell’attuale visibilità è dovuta alle capacità comunicative dei seguaci dello Stato islamico, in grado di diffondere attraverso i social media un’efficace strategia del terrore. Occorre però una riflessione più profonda: da un verso è vero che molte violenze hanno il colore odioso della persecuzione religiosa ed è altrettanto vero che questo tipo di violenza sta crescendo; tuttavia ne va denunciata la facile strumentalizzazione. Dall’altro, va compreso che c’è un clima di violenza diffusa finalizzata alla pura gestione del potere e delle risorse economiche, a prescindere dalle appartenenze religiose, che diventano solo uno strumento per scopi molto terreni. Ma quale guerra ha mai risolto i problemi? E chi ne trae profitto? E soprattutto evitiamo le semplificazioni che prevedono come ineludibile lo scontro di civiltà o semplicemente l’impossibilità di vivere insieme tra culture diverse. Ecco dunque la sfida: testimoniare una via di pace attenta alla dignità di ogni persona, di ogni popolo, di ogni cultura. Questa sarà possibile se riusciamo, come ha indicato il Papa, a «pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni», se ci impegniamo a «lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la negazione dei diritti sociali e lavorativi», se sappiamo «far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che tutti siamo chiamati a trasformare». La costruzione di questo ‘nuovo edificio’ è responsabilità di tutti, nessuno escluso.