Rai, una riforma pericolosa

Di Renato Parascandalo, giornalista, ex direttore Rai Educational e Rai Trade.

Entro il 6 maggio 2016 deve essere rinnovata per legge la Concessione alla Rai del servizio pubblico. Se entro quella data la Concessione non fosse rinnovata, la Rai non sarebbe più autorizzata a trasmettere, né tanto meno a percepire il canone. Decadrebbero inoltre gli obiettivi che ora è obbligata a perseguire. Pertanto, la logica dovrebbe suggerire di procedere in quest’ordine: 1) rinnovo della Concessione in esclusiva alla Rai e definizione della mission per i prossimi anni; 2) ridisegno della governance in funzione di quest’ultima e dei criteri che la ispirano; 3) riforma del canone per garantire indipendenza economica e risorse certe per almeno un quinquennio. Al contrario, il disegno di legge governativo, attualmente in discussione al Senato, sovverte questo schema logico. In particolare: trascura del tutto missione e compiti essenziali del servizio pubblico che pure erano elencati nella vituperata legge Gasparri. Al tempo stesso si concentra sulla governance e sul canone; ma in mancanza della missione (l’obiettivo), questi mezzi diventano fine a se stessi (controllo da parte dell’esecutivo e ripartizione delle poltrone). Sopprime poi la Concessione sostituendola con un contratto di servizio di cinque anni. E la Rai non è più la ‘concessionaria’ ma il ‘gestore’ del servizio pubblico senza alcuna garanzia dell’esclusiva. Si apre così il varco allo ‘spacchettamento’ del canone tra la Rai e gli altri operatori, sia nazionali che locali. Di fatto, l’erogazione di quote del canone a emittenti locali delegittima le sedi e le redazioni regionali della Rai, predisponendole allo smantellamento. Per assicurare l’indipendenza editoriale della Rai, il canone dovrebbe essere confermato come ‘tassa di scopo’ e rappresentare una risorsa certa. Stando all’attuale ddl il canone potrebbe invece confluire nella fiscalità generale; in tal modo il governo godrebbe di una discrezionalità economica che inciderebbe di fatto sull’autonomia editoriale e sulle prospettive industriali dell’azienda. Inoltre, il servizio pubblico svolto dalla Rai è un servizio pubblico ‘soggettivo’, simile a quello della scuola pubblica, che è tale per la natura pubblica del ‘soggetto’ che le eroga. Nel ddl governativo questa ‘soggettività’ svanisce: il servizio pubblico diventa ‘oggettivo’, cioè determinato dal genere dei programmi trasmessi e dai servizi forniti. Questo rovesciamento rafforza la prospettiva della ripartizione del canone fra tutti i soggetti in grado di erogarli: il servizio pubblico, tratto peculiare del welfare europeo, viene rimpiazzato da un generico ‘pubblico servizio’ gestibile da aziende pubbliche o private. E ancora: i criteri di nomina del CdA e dell’Ad sono in netto contrasto con le sentenze della Corte Costituzionale che alla metà degli anni ’70, in nome del pluralismo, sancirono il passaggio dalla ‘Televisione di Stato’, controllata dall’Esecutivo, alla ‘Televisione pubblica’ d’indirizzo parlamentare. In un paese che è al 73° posto nella classifica sulla libertà d’informazione, dove l’88% dei cittadini si informa prevalentemente grazie alla tv generalista, le forze politiche democratiche dovrebbero affrontare il tema della rifondazione della Rai, come istituzione e come impresa, con maggiore riguardo ai diritti costituzionali ma anche con una buona dose di audacia e di inventiva, tratti che mancano del tutto nel disegno di legge approdato al Senato.