Media e femminile: qualcosa sta cambiando?

E’ possibile che sia una spinta della società civile ad innescare una trasformazione delle modalità con cui i media di massa raccontano la realtà del nostro paese? Forse sì, almeno rispetto a qualche aspetto specifico; o almeno, conviene sperarlo.

Gli ultimi mesi hanno visto lo sviluppo di un intenso dibattito attorno alla rappresentazione del femminile sui media di massa, una delle pratiche che da trent’anni a questa parte hanno notoriamente reso la cultura mediatica del nostro paese significativamente più arretrata rispetto alla media dei paesi occidentali.

Non si tratta evidentemente di una “questione femminista”, ma di un metro su cui misurare il nostro grado di civiltà e la qualità dei valori culturali che condividiamo a livello collettivo.

E non si tratta neppure più di chiedersi semplicemente quanto sia di buon gusto infilare immagini di culi e di tette ovunque i palinsesti della tv generalista lo consentano, ma piuttosto di porsi in modo sempre più stringente certe domande di fondo su un potere mediatico che nei fatti appare sempre meno assoggettabile a qualunque tentativo di regolamentazione proposto dall’esterno.

Afferma Massimo Carboni nel suo acuto Di più di tutto. Figure dell’eccesso (Castelvecchi, 2009):

Il terribile non è più che chi gestisce quello che tuttora rimane il più potente e pervasivo strumento di produzione, comunicazione e gestione del desiderio di massa [la televisione], pretenda di farlo unicamente corrispondendo alle presunte aspettative del pubblico. Il terribile […] è che ciò diventa sempre più vero.

E’ vero, ma fino a che punto? Bastano i dati dell’auditel per tracciare un attendibile ritratto civile, sociale e culturale del nostro paese?

E’ del resto evidente come dietro il pubblico eccesso di culi e tette sulle nostre tv generaliste risiedano criteri di mercificazione del corpo, del desiderio e dell’intimità che, in nome del fatto che le priorità e le emergenze culturali da affrontare siano sempre di altro ordine, continuano a colpire in modo trasversale tra i simpatizzanti di tutti gli schieramenti politici e ideologici, evidenziando un impressionante dislivello tra ciò che si professa in pubblico e ciò che, più o meno consapevolmente, si legittima in privato, servendosi magari del proprio telecomando.

E’ evidente come il morbo di una cultura patriarcale, che in tempi moderni nei comportamenti sociali prende spesso le forme del machismo, e che a livello mediatico produce un modello di rappresentazione profondamente maschile, sia ancora lontano dall’estinguersi dalle nostre parti; ma quello che più abbatte è l’assuefazione, a volte persino il gradimento, che questi degradanti canoni di esposizione televisiva del femminile provocano anche tra molti che si rifanno al patrimonio storico dei valori di ciò che nel nostro paese è o è stata la sinistra.

E’ però allo stesso tempo vero che il dibattito su questi temi non è mai stato in tempi recenti vivo come in questo periodo.

La tensione verso la liberazione della televisione dai culi e dalle tette, o forse sarebbe meglio dire verso la liberazione dei culi e delle tette dalla televisione, sta ruotando in particolare attorno ai tentativi di elaborazione di modelli alternativi e alle pratiche di educazione alla decodifica dei linguaggi mediatici proposti da molte donne impegnate nelle istituzioni e nella società civile, e ispirati in parte significativa da testimonianze quali “Il corpo delle donne”, video-documentario di cui si è già parlato a suo tempo su questa web-radio (visibile su www.ilcorpodelledonne.it, sito che ospita anche un blog e un forum molto partecipati).

Ben venga dunque che questi tentativi e queste pratiche abbiano negli ultimi giorni ispirato una mozione parlamentare che indica nell’educazione ai media uno strumento fondamentale per la trasformazione positiva della nostra società e un appello alle figure istituzionali che dovrebbero fare da garanti rispetto all’utilizzo democratico degli stessi media.

Atti di pura testimonianza, destinati a non incidere?

Può essere, ma atti comunque utili a far sì che se ne parli il più possibile, cercando di frenare la discesa lungo il precipizio scavato da un potere mediatico sempre più giuridicamente sfuggente quanto culturalmente devastante.

Alessio Traversi