“Astensionismo”: una definizione di parte

Astensionismo significa in primo luogo rinuncia.

Nell’ambito di una democrazia rappresentativa, significa per chi lo pratica il rifiuto di esprimere una scelta su come dovrebbero essere governati il nostro paese, le nostre regioni, le nostre città.

Non esiste il cosiddetto “partito del non-voto”, poiché l’astensionismo in parte dominante non rimanda a un’identità e non è uno strumento di rivendicazione, ma il frutto di fattori che, pur molteplici, si ricollegano principalmente alla disaffezione, alla distanza, all’indifferenza e alla mancanza di passione dei cittadini rispetto alla politica.

L’astensionismo non premia e non punisce le maggioranze, così come non premia e non punisce le opposizioni, per cui è strumentale appropriarsene per tentare di dimostrare che un governo nazionale o locale possa in base ad esso risultare più o meno debole.

L’astensionismo non è un voto di protesta, ma è il prodotto di una cultura in cui si sono imposte semplificazioni e falsità quali “tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”, che denotano una crescente incapacità di produrre punti di vista complessi, autonomi e alternativi da quelli indotti dal bombardamento mediatico e televisivo.

L’astensionismo non può essere nobilitato, poiché oggi esso è soprattutto il sintomo del disimpegno e del “m’importa una sega” che spesso riduce lo scambio di punti di vista tra le persone a folclore da bar, e che porta molti a sfogliare le pagine dei giornali direttamente dalla cronaca sportiva, saltando tutte quelle precedenti.

L’astensionismo è oggi il segno di una perdita di senso critico; è la scelta di chi ha ormai completamente interiorizzato l’idea che ogni conquista possa essere esclusivamente una soluzione individuale; è la pratica di chi ormai si è convinto che, in un paese in cui normalmente si è sull’orlo del precipizio, valga la pena di spendersi esclusivamente per migliorare la propria specifica condizione, facendo corsa per conto proprio.

L’astensionismo è una sconfitta generalizzata, poiché non vi sono oggi nella società significativi ed estesi movimenti che propongono un tipo di rappresentanza diversa dal voto, e perché, se il crescente astensionismo prelude alla crisi irreversibile di questo sistema di rappresentanza, dopo la fine dei partiti a determinare la nostra democrazia ci saranno di nuovo i partiti.

L’astensionismo è il segno di una catastrofe culturale che dobbiamo ostinarci a non ritenere irreversibile, poiché è soltanto stimolando e veicolando la passione del sentirsi soggetto collettivo che possiamo evitare che tutto vada a rotoli.

E’ probabilmente anche di questo che deve occuparsi chi ha vinto e chi ha perso queste elezioni regionali.

Chi vive in Toscana e ha sostenuto la candidatura di Enrico Rossi non può accontentarsi del fatto che egli, che aveva il sostegno di tutti i partiti di centro-sinistra e sinistra, abbia vinto con largo margine, e che questi stessi partiti siano cresciuti in termini percentuali sul territorio locale. In alcuni seggi della città di Livorno, in aree storicamente definite “quartieri rossi”, l’astensionismo ha superato il 50%, e questo dato non può essere semplicemente liquidato con un generico disinteresse verso l’elezione di un’amministrazione percepita come distante dalla nostra quotidianità (percezione tanto più erronea viste le crescenti competenze della Regione), ma deve anzi essere recuperato nei fatti e a partire da subito, per evitare che in futuro risulti un problema non più gestibile.

E’ quindi necessario comprendere come sia possibile dialogare con chi pratica l’astensionismo e con chi pertanto oggi ha fatto una scelta diversa dalla nostra, poiché saper parlare anche con coloro che hanno convinzioni diverse dalle nostre è sempre più determinante in un paese del quale la Toscana è sempre meno rappresentativa; un paese nel quale il dominio mediatico di un ceto culturale comincia ad essere messo in crisi ma è ancora ben lontano dal tramontare; un paese nel quale le destre devono essere vinte nei contenuti, poiché hanno prodotto non solo feticci televisivi ma anche amministratori locali dei quali i cittadini si fidano, personaggi che non possono essere battuti né rincorrendone i valori né semplicemente additandoli come esponenti di interessi particolari, di un autoritarismo, del qualunquismo e della telecrazia.