STABILIRE LA VERITA’, MIGLIORARE LA VITA IN CARCERE

La morte di Yuri Attinà deve probabilmente essere in primo luogo percepita e raccontata per ciò che essa concretamente è: la tragica e inattesa scomparsa di un ragazzo di ventotto anni che aveva condotto una vita complicata ma che, pur tra mille difficoltà, voleva sicuramente continuare a vivere. Dietro qualsiasi riflessione complessiva, non deve mai venir meno questo dato, perché la scomparsa di un figlio, di un fratello, di un amico, specie se così giovane, crea un dolore che non passa.

Yuri Attinà è morto nella Casa Circondariale di Livorno, luogo che da alcuni anni vanta un triste record di decessi, in linea del resto con l’alto numero di morti (oltre 1700) che negli ultimi dieci anni si sono verificate nel mondo carcerario italiano. Si è discusso innumerevoli volte sulla criticità e l’inadeguatezza delle nostre strutture carcerarie, soffocate tra sovraffollamento, incuria e carenza di personale, ma finora ciò non è servito ad individuare soluzioni effettivamente efficaci. Il carcere continua ad essere in particolare un luogo dove è messa a rischio soprattutto la sopravvivenza dei soggetti più deboli e meno tutelati, finendo per risultare l’ultimo anello di una catena che tende ad escludere già all’esterno, nell’ambito della cosiddetta società civile. Rimosso dal perimetro sociale della città e dalla comunità locale, il nostro carcere è una realtà comunitaria in cui si riesce sempre meno a garantire la dignità e la qualità della vita di chi lo abita e uno spazio fisico in cui è sempre più difficile dare un senso alla pena.

Risulta ora necessario chiarire con estrema accuratezza la dinamica oggettiva della morte di Yuri Attinà ed individuare, tramite autopsia, non solo il meccanismo del decesso ma anche le sue effettive cause. Per comprendere a pieno il senso di questa morte, è però necessario riflettere anche sulla dimensione soggettiva in cui questo ragazzo si è trovato al momento del suo ingresso e poi della sua permanenza nella casa di reclusione. La biografia di Yuri Attinà racconta di una persona immersa in una situazione poco adatta a fronteggiare la dura esperienza del carcere, e in particolare del carcere così come è oggi. Una soluzione che lo portasse a scontare la sua pena in una realtà alternativa all’istituto di pena si è rivelata, a posteriori, più urgente di quanto le dinamiche giudiziarie e le circostanze pratiche abbiano costretto ad attendere.

Tutto ciò chiama in causa il patto principale su cui si fonda la nostra società: quando un cittadino viene consegnato allo Stato, quest’ultimo ha il compito di proteggerlo, tutelarlo e fare il massimo per garantirne la sicurezza; e per quanto riguarda specificamente le situazioni detentive, deve imporsi di restituirlo alla libertà, al termine del percorso di reclusione, in una situazione individuale riabilitata rispetto a quella in cui lo ha preso in consegna.

Sempre di più la qualità della vita carceraria sta diventando uno dei principali metri su cui si misura il grado di civiltà di un paese. Perseguire questa qualità della vita e il bene dei detenuti deve essere un obbligo non solo legislativo ma anche morale, e un impegno che, a seconda delle proprie funzioni, tutti devono assumersi, dai funzionari ministeriali fino ai semplici cittadini.

Non deve servire la morte di un ragazzo di ventotto anni per richiamarcelo alla mente.

Le morti, oltre che creare dolore, non servono mai.

Per questo ci uniamo a tutti coloro che chiedono di stabilire definitivamente la verità sulla morte di Yuri Attinà ed esprimiamo il nostro sincero dolore e la nostra piena solidarietà ai suoi familiari ed amici.

 Arci Livorno

La redazione di Radio Cage