Nota del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Livorno Marco Solimano.
Per troppo tempo il carcere è stato luogo dell’oblio, della rimozione sociale, elemento quasi catartico di una società violenta e diseguale.
Il carcere sparisce anche dai nostri occhi: negli ultimi decenni infatti l’architettura penitenziaria si sposta verso le periferie urbane, quasi che le contraddizioni più complesse del nostro vivere sociale debbano essere espulse anche dalla nostra vista, dai nostri pensieri, dalla nostra quotidianità. Contraddicendo, invero, la centralità che i luoghi di pena avevano all’interno del tessuto urbano, Regina Coeli a Roma, San Vittore a Milano, Le Nuove a Torino, i Domenicani a Livorno etc., ampiamente documentati soprattutto nei film del neorealismo italiano. Quasi a testimoniare che l’espiazione della pena non comportava l’espulsione dal contesto civile e sociale, non c’era la contemporanea privazione della cittadinanza.
Oggi tutto è cambiato, è sicuramente cambiata la composizione sociale della popolazione detenuta, si è profondamente modificato il contesto, anche culturale, sono cambiate le condizioni ambientali e strutturali dei luoghi di pena.
Il carcere è sempre più luogo dell’assenza. Assenza di diritti, di umanità, di prospettive, di senso. Uomini e donne ammassati in luoghi sempre più stretti ed ameni, a fronte di una capienza complessiva delle carceri italiane di 46.000 posti ce ne sono attualmente circa 70.000, i trasferimenti per la manutenzione ordinaria e straordinaria quasi del tutto cancellati, il personale civile e militare in sotto organico di diverse migliaia di unità, posti di lavoro all’interno ridotti ai minimi termini.
Questa la realtà delle carceri italiane oggi, dove il tema della difesa e tutela dei diritti fondamentali dell’uomo è prioritario rispetto a tutto, dove la dimensione punizionista e custodialista è ampiamente prevalente su quella inclusiva e riabilitativa, luogo dove si condensano fasce di povertà, di marginalità ed esclusione sociale, dove la dignità, la civiltà ed il decoro si sono fermati. Una vera e propria discarica sociale in cui rovesciare le contraddizioni più complesse e spigolose della nostra vita sociale e di relazioni.
Chi rompe il patto sociale e viola le regole della convivenza deve, ovviamente, assumere le conseguenti responsabilità. Ma la pena deve avere un senso ed il sovraccarico di sofferenza ed umiliazione, non scritto in sentenza, non aiuta a ritrovare questo senso, la scomposizione e la parcellizzazione della vita emozionale ed affettiva di un uomo o di una donna non consentono la costruzione di una nuova identità su cui investire in un progetto di cambiamento possibile.
Se, come diceva Voltaire, la democrazia e la qualità di un Paese si valuta dal grado di civiltà delle sue istituzioni totali, vuol dire che la tenuta democratica delle nostre istituzioni è fortemente a rischio, se nel nostro immaginario si affaccia l’idea che possano esistere luoghi con diritti soggettivi attenuati o ridotti, si comincia ad affacciarsi in un tunnel pericoloso e preoccupante. Se lo stesso Presidente della Repubblica ha più volte pubblicamente denunciato questa condizione vuol dire che si avverte il pericolo di un rischio imminente. Se tanti Comuni, Province e Regioni di Italia sempre più cominciano a dotarsi di strumenti di garanzia e controllo, come i Garanti, vuol dire che comincia, finalmente, ad affacciarsi l’idea di una assunzione di responsabilità pubblica di un tema fondativo per la qualità della democrazia nei nostri territori.
Ripristinare le condizioni di diritto, umanità e dignità nelle nostre carceri è la premessa fondamentale per una riflessione ed una elaborazione profonda sul senso della pena, questo è il lavoro che, faticosamente, ma tenacemente, L’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà individuale del Comune di Livorno ha assunto e che da oltre un anno si misura tutti i giorni.