Poco importa al sistema climatico se il sistema economico oggi in voga sta mostrando una nuova forma di capitalismo, quello ‘di stato’, che va affiancandosi al ‘capitalismo di mercato’. Gli effetti sull’ambiente sono in gran parte in linea con i vecchi attori della politica mondiale.
Tra le principali dieci multinazionali classificate per fatturato 2010, al sesto posto spicca la China National Petroleum Corporation, a poca distanza dalla britannica BP; seppur con un management di diversa estrazione, le politiche portate avanti e le conseguenze subite dall’ecosistema e dalle comunità umane rimangono le stesse.
D’altra parte il pericoloso concorso di interessi tra profitti privati e potere pubblico rischia di moltiplicare anche a livello ambientale i casi ‘Foxconn’, in cui sta emergendo uno spaccato di sfruttamento del lavoro al limite del medioevo, in una delle principali aziende cinesi fornitrici delle grandi marche dell’high tech. Di fronte a tali scenari, la proposta tout court di una ‘green economy’, che salverà il pianeta, rischia di essere fuori scala. Fermo restando l’importanza dello sviluppo tecnologico e della diffusione di metodi puliti di produzione energetica, soprattutto se a piccola scala, un’analisi dello sviluppo della Green economy non può prescindere da alcuni dati di fatto. Il primo è la trasparenza delle filiere.
Produrre moduli fotovoltaici o componenti per l’eolico in un quadro di ‘sviluppo sostenibile’ non significa necessariamente che la sostenibilità sia totale.
Le filiere produttive, ancora troppo spesso opache e intangibili, non consentono di conoscere le condizioni di lavoro e di sfruttamento dei lavoratori così come gli effetti ambientali dell’utilizzo di sostanze chimiche nei processi produttivi.
Nel comparto del fotovoltaico, ad esempio, si sta assistendo ad un forte calo dei prezzi sul mercato dei moduli, dovuto ad una fase di sovrapproduzione rispetto alla domanda, ma anche ad un’entrata prepotente di attori globali, spesso asiatici, capaci di imporre prezzi bassissimi.
La rincorsa verso il basso è appena cominciata e purtroppo il lavoro è tra le voci di costo ancora oggi più comprimibili.
Il secondo dato di fatto è il mercato delle materie prime.
Molte tecnologie verdi si rifanno all’utilizzo di alcune componenti, come le ‘terre rare’, fortemente inquinanti al momento della loro estrazione e di limitata disponibilità. Le politiche di accaparramento di queste materie prime fondamentali per la Green economy sta portando a vere e proprie tensioni internazionali così come a politiche neocoloniali da parte dei vecchi e dei nuovi attori della globalizzazione. Alcuni organismi internazionali stanno giocando un ruolo tutto da osservare rispetto a questa realtà: l’Organizzazione Mondiale del Commercio, infatti, di recente ha condannato la Cina per aver voluto limitare le esportazioni di questi elementi.
Se pure la Cina, il principale giacimento globale di ‘terre rare’, ne abbia bloccato le esportazioni per aumentare la competitività delle imprese nazionali, non avrebbe potuto sottrarsi dalle sanzioni nemmeno se animata da una sincera preoccupazione ambientalista. Esiste, per la Wto, una prevalenza degli interessi di mercato rispetto a quelli nazionali e naturali nei riguardi di risorse in esaurimento che preoccupa e rispetto alla cui sostenibilità siamo chiamati tutti a interrogarci.
Il terzo elemento rispetto al quale, dunque, siamo chiamati a riflettere sono le politiche di liberalizzazione dei mercati.
La spinta da parte della Wto perché s accelerino gli scambi all’interno del mercato delle tecnologie verdi, senza intaccare la prevalenza della difesa della proprietà intellettuale e della sua dimensione commerciale rispetto all’interesse dei popoli nel far diffondere più rapidamente possibile le scoperte più efficaci, rischia di trasformare la Green economy in un nuovo cavallo di battaglia per le multinazionali detentrici del brevetto, capaci di investire ovunque convenga (leggi costo del lavoro più basso o deboli legislazioni ambientali) mantenendo però nella casa madre know-how e competenze.
Se, infatti, i Paesi meno sviluppati sono quelli che pagano con il più alto prezzo di perdita di vite e di biodiversità il costo di un’industrializzazione di cui hanno beneficiato solo marginalmente, nessun Paese sta muovendo un passo per prevedere, all’interno del negoziato Trips, un’eccezione alla protezione della difesa dei brevetti delle tecniche più innovative per consentire loro di ottenerle e utilizzarle a titolo gratuito nei momenti di crisi umanitaria connessa al climate change. E diverse pubblicazioni scientifiche mostrano come lo sviluppo dei mercati globali sia stato uno dei principali traini al cambiamento climatico.
L’analisi del contenuto in carbonio delle importazioni e delle esportazioni mostra un flusso netto di carbonio dalla produzione al consumo, mettendo al centro non solo le responsabilità dei Paesi produttori (come vorrebbe Kyoto) ma anche quelle date da stili di vita poco sostenibili e fortemente orientati all’individualismo e al consumismo.
Nessuno, però, si preoccupa di mettere in discussione il mantra della crescita anche nel settore degli scambi commerciali globali, anzi. L’orchestra continua a suonare mentre il transatlantico sviluppista ci porta a fondo.
Nell’ultima riunione ministeriale della Wto del dicembre 2011, infatti, la parola d’ordine è stata ‘combattere il protezionismo’, anche quando significhi prevalenza della protezione dei diritti umani su quelli d’impresa.
Nessuno vuole discutere l’introduzione di un sistema di dazi alle esportazioni e alle importazioni di prodotti ‘sporchi’ e ad alta impronta ecologica.
Nessuno vuole riconvertire le attuali politiche di aiuti al commercio in politiche di sostegno alla progettazione di cicli produttivi e di consumo sostenibili.
Nessuno riesce a guardare oltre la vuota retorica del ‘made in’, per promuovere una concreta rilocalizzazione e razionalizzazione delle produzioni grazie ad una politica globale di aiuti e incentivi per le filiere meno climalteranti.
Nessuno mette in discussione lo stesso concetto di filiera per spostare l’attenzione sul ciclo di produzione e di vita dei prodotti, invertendo la tendenza odierna alla moltiplicazione delle linee e delle referenze.
Nessuno mette a tema la fine delle risorse non rinnovabili, la loro razionalizzazione per il futuro del pianeta grazie ad una politica di regia dei consumi individuali serrata e centrale nello spazio pubblico.
Al contrario, tra i ‘nuovi temi’ che s’intende considerare come settori commerciali sui quali puntare per una nuova accelerazione degli scambi internazionali c’è proprio quello dei prodotti e dei servizi connessi all’adattamento e alla mitigazione dei cambiamenti climatici.
Come se non si trattasse di dispositivi e politiche che possono offrire un’ultima possibilità di salvezza al futuro della nostra umanità, ma di merci come tutte le altre.
Info: www.faircoop.net