Al termine di un’inchiesta durata nove mesi, il rapporto del Consiglio d’Europa attribuisce all’Italia le maggiori responsabilità per la morte di 63 persone, tra cui 20 donne e due bambini, avvenuta nel marzo del 2011. Queste persone si trovavano su un barcone partito dalla Libia per fuggire alle violenze della guerra civile in corso. Quasi subito si registrò un’avaria, ma nessuno intervenne, lasciando i naufraghi per due settimane alla deriva finchè la barca non approdò alle coste da cui era partita. L’Italia fu la prima a ricevere la richiesta di soccorso. Di qui l’attribuzione delle maggiori responsabilità, non mitigate dal fatto che responsabili vengano considerati anche la Nato – i cui mezzi in quel periodo pattugliavano numerosi il Mediterraneo -, Malta e la Libia, accusata di aver indotto, anche con la forza, molti migranti a prendere la via del mare.
Alcuni giorni fa la rete europea Migreurop, insieme ad altre organizzazioni internazionali, aveva inviato una richiesta di chiarimenti proprio su quest’episodio alla Nato e ai ministri della difesa dei Paesi interessati, paventando quelle responsabilità che poi sono state confermate dal rapporto. La stessa indagine andrebbe fatta per gli altri 1500 morti, ugualmente provenienti dalla Libia, scomparsi in mare lo scorso anno, mentre la Nato inviava i suoi cacciabombardieri ad ‘aiutare’ la popolazione civile di quel Paese. In realtà quei morti, come gli altri a migliaia inghiottiti dal Mediterraneo negli ultimi anni, sono il frutto di un imbarbarimento della politica e dell’etica pubblica, che ha raggiunto uno dei suoi momenti peggiori con i respingimenti in mare voluti dal precedente ministro Maroni, una prassi disumana e illegale, condannata nei giorni scorsi dalla Corte Europea. Nel rapporto la relatrice afferma che le morti in mare dimostrano l’esistenza di un inaccettabile «doppio standard nel valutare le vite umane», e che «non ha titolo per parlare di rispetto dei diritti umani chi lascia morire le persone perché non identificabili o perché provenienti dall’Africa». Sono parole che sottoscriviamo in pieno. Vogliamo però lanciare un allarme, perché l’attenzione su questo problema non deve abbassarsi. Nei primi mesi del 2012 sono già morte più di 70 persone nel tentativo di raggiungere le nostre coste. Chiediamo al governo di ribadire in modo chiaro, nelle sedi adeguate e a tutti i soggetti interessati, pubblici e privati, che l’obbligo di salvataggio in mare, previsto dal diritto internazionale, dev’essere sempre e comunque rispettato. Non sono più tollerabili i palleggiamenti di responsabilità tra uno Stato e l’altro o le intimidazioni più o meno esplicite usate in passato verso i pescherecci perché non intervenissero.
Così come va ribadito che l’accesso al diritto d’asilo dev’essere garantito a tutti, senza discriminazioni o preconcetti.
L’accoglienza, il rispetto della dignità delle persone, oltre che della loro vita, deve diventare la pratica concreta di un Paese che deve chiudere subito una pagina vergognosa della sua storia recente. Le frontiere non debbono più essere lo spazio in cui si esercita la prepotenza del forte contro il debole, in barba alle leggi e alle responsabilità internazionali.