Un paese da ricostruire

Mentre sfuma la calura di un’estate difficile come non mai, cresce la preoccupazione per l’autunno che ci attende. La crisi economica, l’emergenza sociale e la questione democratica sono i nodi intrecciati e non separabili di una fase di passaggio che si annuncia cruciale e dagli esiti incerti. Lo stato della nostra economia in piena recessione è drammatico: si moltiplicano le imprese costrette a licenziare o chiudere, la precarietà e la mancanza di lavoro sono il primo problema del paese e rischiano di alimentare oltre il livello di guardia la tensione sociale, mentre la riduzione degli ammortizzatori sociali per effetto della riforma Fornero peggiora la situazione. Il governo sostiene che l’obbiettivo della crescita sarà il cuore della sua azione nell’ultimo scorcio di legislatura. Ma l’agenda impostata fin qui dall’esecutivo non è niente di più che una generica carta di intenti: al di là dei molti annunci ad effetto, le scelte concrete sono poche e restano tutte nell’ambito delle politiche di austerità e non di sviluppo. È evidente che la strategia dei due tempi non regge e che non potrà esserci alcuna crescita insistendo solo sui tagli di spesa. È folle pensare di poter attraversare una fase prolungata di recessione azzerando di fatto le risorse destinate alle politiche sociali, perché proprio quando il paese è in difficoltà bisogna sostenere la sua parte più debole. Servono misure immediate per difendere quel po’ di lavoro che ancora c’è, crearne di nuovo, redistribuire reddito, sostenere i consumi, tornare a favorire gli investimenti. Siamo dentro una transizione che dovrà portare a un nuovo modello di sviluppo visto che il liberismo ha ampiamente dimostrato il suo fallimento. Lasciare che il mercato facesse tutto da sé ha consentito alla finanza speculativa di mangiarsi l’economia reale, ha finito per bloccare lo sviluppo e fare man bassa dei diritti sociali, ha reso impotente la politica e alimentato pulsioni populiste e nuovi nazionalismi xenofobi. Serve un cambio di rotta, libe­rare l’economia dal giogo della speculazione finanziaria, puntare sulla riconversione del si­stema produttivo verso soluzioni innovative ed ecologicamente sostenibili. La vicenda Ilva, come quella del Sulcis, dimostrano che l’esigenza di conciliare la difesa del lavoro e il diritto alla salute è ormai un nodo ineludibile. Questione certamente risolvibile grazie alle nuove tecnologie, ma a patto che non si lasci solo al mercato il compito di affrontarla. Bisogna ripensare l’intervento pubblico in economia e una vera politica industriale che per anni è mancata in Italia; i soldi sono pochi ma proprio per questo servono scelte selettive e lungimiranti sui settori da sostenere con gli incentivi alla domanda e le agevolazioni alle imprese. Bisogna salvaguardare il sistema pubblico di welfare a sostegno delle fasce più deboli della popolazione, cercando le risorse necessarie attraverso il prelievo fiscale sui patrimoni e le grandi ricchezze. È il momento che chi ha avuto di più restituisca qualcosa. La prospettiva europea è decisiva. La crisi economica sociale e democratica in cui si dibattono i singoli paesi della regione sconta la debolezza del processo di costruzione politica dell’Unione, una moneta senza stato e senza governo con una banca centrale che non ha i poteri delle banche nazionali. Non potrà esserci alcuna inversione di tendenza nelle economie nazionali se una reale discontinuità rispetto alle politiche restrittive ed autodistruttive imposte dal liberismo non si afferma a livello europeo, a cominciare dalla rimessa in discussione del fiscal compact. Il governo Monti non è in grado di fare scelte così impegnative, perché non ci crede e non è questo il suo mandato. Continua a muoversi dentro il paradigma liberista e rischia di trascinarci in una spirale destinata ad alimentare la recessione, creare nuova disoccupazione e incrementare il debito pubblico. Per salvare il paese è necessario che una netta svolta politica sia legittimata dal voto popolare. Ma perché questo avvenga bisogna che i partiti prendano atto della loro crisi di credibilità e si mettano in gioco nella costruzione di un nuovo progetto, in uno sforzo collettivo che deve coinvolgere tutte le competenze e le energie disponibili, le forze sane dell’impresa e del lavoro, i movimenti sociali, il terzo settore. È l’unica strada, di fronte alla minaccia del populismo dilagante e a una scadenza elettorale ravvicinata da cui dipenderà non solo la scelta del prossimo governo, ma anche il futuro della nostra democrazia. Non sottovalutiamo i segnali (neppure troppo velati) giunti dalle agenzie di rating a fine agosto: dopo averla bastonata per mesi, oggi sostengono all’unisono con il premier che l’Italia è sulla strada della ripresa e del risanamento, avvertendo però che un eventuale cambiamento del quadro politico potrebbe rimetterne in discussione l’affidabilità. Ebbene, quando la politica è sotto il controllo dei poteri finanziari e i governi accettano questo diktat, suona un campanello d’allarme per la democrazia. Un segnale che dovrebbe indurci a capire che è tempo di chiudere la stagione del dispotismo illuminato dei tecnocrati del mercato per rimettere in campo la vera politica. In gioco c’è molto di più del colore del nuovo governo, c’è la ricostruzione civile morale e democratica del paese. Una bella responsabilità, che non possiamo lasciare solo ai partiti ma dobbiamo sentire anche nostra.