Di Franco Uda : Coordinatore Pace, Solidarietà Internazionale e Cooperazione.
«Solo chi è perso nel deserto/senza cantidi uccelli/né stormire di fronde/nell’arido grigiore di pietra e sabbia/la vera solitudine conosce». Basta qualche giornata trascorsa in uno dei campi sahrawi, Auserd o Smara o Laayoune, e un briciolo di conoscenza della storia di questo popolo, per capire subito che la strofa di questo canto sahrawi descrive una condizione esistenziale individuale, valida tanto per chi nel deserto ci è nato quanto per chi ci è capitato accidentalmente, determinata principalmente dalla vastità di un mare sabbioso esteso quanto l’intero continente Europeo. Sono gli «interminati spazi […], e sovrumani silenzi, e profondissima quiete» che pure la poesia leopardiana prova a descrivere, non senza un forte senso di smarrimento. Certamente non descrive la loro condizione collettiva, quella di popolo.Infatti non possiamo dire che nel deserto si siano persi, tutt’altro, nel Sahara occidentale ci volevano proprio andare. Provenivano dallo Yemen e, per spingersi verso ovest, dovettero attraversare Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, fino a che le 40 tribù sahrawi trovarono lì il loro spazio, intorno al 1200. Popolo di carovanieri che ancora oggi, negli insediamenti della Rasd liberata, mostra vive le proprie origini nomadi. Nè si può affermare che siano soli: non nel senso che intorno a loro ci siano grandi moltitudini, l’antropizzazione, nel deserto, è molto bassa (circa 1 abi tante ogni 10 kmq, rispetto a 34/kmq del continente africano), ma rispetto a quanto la causa del popolo sahrawi ha prodotto empatia e solidarietà nel mondo. Hanno formato una generazione di abili e valorosi diplomatici, alcuni di loro provengono dalle fila dell’esercito dopo il ‘cessate il fuoco’ del 1991, altri sono giovani istruiti nelle università di mezza Europa (e di Cuba, che non ha mai cessato di fornire il dovuto sostegno, in molti modi), che incessantemente tessono orditi di relazioni con la società civile di tutto il mondo, sviluppando elementi concreti di solidarietà politica e umanitaria raramente riscontrabili nella stessa misura.
Forse sarà perchè «i Sahrawi hanno una dignità che include qualcosa di metafisico» come diceva Tom, o forse perchè appare fin troppo chiaro, nella loro annosa vicenda, quale è la parte oppressa. Diversa fortuna hanno avuto in questi ultimi 40 anni presso le istituzioni internazionali, complici gli intrecci di interessi della Francia e degli Usa con il Marocco e un ruolo esiziale della Spagna, che pure porta gravi responsabilità storiche. Eppure stupisce la loro allegria, la disarmante limpidezza con la quale cercano o accolgono una approccio nuovo, i sorrisi di cui non sono avari, gli sguardi al tempo stesso apertamente ingenui e carichi di sofferenze troppo profonde per essereraccontate. Tenacemente vivono in uno dei luoghi più inospitali del pianeta, dove la terra non è generosa e non produce frutti per sviluppare una seppur minima economia di autosussistenza. Ma le scuole sono molto frequentate e di buon livello, gli ospedali e i dispensari dignitosi e con medici e operatori competenti: sono questi i frutti migliori di una cooperazione dal basso, fatta di centinaia di municipalità di mezza Europa, di associazioni e Ong che collaborano con le professionalità locali continuando a garantire un vero e proprio sistema di welfare che regge le fragilità sociali presenti. L’Arci è ben conosciuta qui, a partire dalla figura di Tom. Quello che ha prodotto attraverso i propri circoli e comitati che nel corso di tanti anni si sono innamorati di questo popolo con progetti, scambi di giovani e bambini, iniziative di solidarietà materiale. Di questo c’è ancora bisogno. Appare però chiaro come oggi, una più decisa azione presso le istituzioni, nazionali e internazionali, verso il mondo della politica, attraverso azioni di sensibilizzazione e di lobbing, sia non più mprocrastinabile, ed è quanto chiedono alla nostra associazione: è il tempo di una road map per il popolo dei Sahrawi, per la ricerca di una soluzione nel segno del diritto internazionale, che ponga fine alle violazioni dei diritti umani nell’ultima colonia del XXI secolo. Aprire la strada dell’autodeterminazione per questo popolo non va solo nella direzione della ricerca della giustizia e dell’ottenimento della libertà, ma la spinta verso la stabilizzazione di questa area corrisponde a una necessità che dovrebbe scuotere tutte le istituzioni internazionali, a partire dall’Europa.