Erdogan perde la maggioranza assoluta e i curdi entrano nel Parlamento turco

Di Gianluca Mengozzi, Arci Toscana.

L’8 giugno scorso si son tenute le elezioni parlamentari in Turchia che hanno visto un’affluenza al voto dell’87% degli aventi diritto. Il partito di governo AKP del presidente Erdogan ha avuto un crollo di consensi di circa il 10% allontanandosi dalla soglia del 50% di maggioranza assoluta che gli avrebbe consentito di avere i due terzi dei seggi. Erdogan ed il primo ministro Davutoglu, che pensavano a alternarsi in staffette simili a quelle tra Putin e Medvedev, dopo 13 anni di governo monocolore del loro partito conservatore e filoislamista si trovano nella condizione di non poter più governare da soli. La prima conseguenza è che, ben lontani dai due terzi del parlamento necessari, i dirigenti dell’AKP dovranno abbandonare i progetti di revisione in senso marcatamente presidenzialista dell’assetto istituzionale del paese. La democrazia turca si trova dunque in una situazione originale per la sua storia: nessuno degli altri partiti che hanno superato la severa soglia di sbarramento del 10% (Socialdemocratici al 25%, nazionalisti al 16% e filocurdi al 13%) ha dichiarato disponibilità ad allearsi con l’AKP per formare un governo. Lo sbarco in parlamento dei 79 deputati e deputate dell’HDP di Demirtas, radicato nella comunità curda ma assai votato dalla borghesia progressista di Smirne, Istanbul e Ankara, costituisce la seconda importante novità del voto e il segno incontrovertibile che la maggioranza dei Curdi intende ormai affrontare le questioni che la riguarda dentro le istituzioni, mettendo fuori gioco i gruppi armati. Data l’impossibilità delle opposizioni a coalizzarsi tra di loro, la soluzione più probabile è quella di un governo di minoranza dell’AKP con deputati dell’opposizione disposti a dare il proprio voto di fiducia su un programma che però elimini le riforme istituzionali presidenzialiste. Per la maggior parte degli analisti Erdogan ha sbagliato strategia: dopo la brutale repressione dei moti di piazza Taksim e delle manifestazioni nelle metropoli anatoliche, dopo gli scandali per gli sprechi di denaro pubblico, i casi di corruzione e le recenti azioni di squadracce contro esponenti dell’HDP, l’opinione pubblica non ha più tollerato la proterva aggressività del presidente. Ma le elezioni danno un segnale se si vuole ancora più importante: la Turchia è un paese che conserva le contraddizioni di una giovane democrazia ma nella sostanza maturo per far parte a pieno titolo dell’Unione Europea, con una società civile organizzata progressista avanzata e in cui la popolazione ha partecipato in massa al voto per dare un segnale di stop all’involuzione autoritaria e confessionale intrapresa dall’uomo più potente del Vicino Oriente e dal suo partito. A fonte di questa evidenza preoccupa la reazione ancora una volta mediocre e deludente dei burocrati della Commissione: da Mogherini non è arrivato nessun segnale concreto di rilancio del negoziato per l’ingresso della Turchia nell’Unione. Sarebbe utile che dall’associazionismo e dai movimenti italiani venisse il messaggio chiaro che la fine definitiva della forzosa lontananza di Ankara dall’Europa non può più aspettare.