Di Massimo Galimberti, componente presidenza nazionale Ucca.
Ogni competizione che si rispetti, specie se la vittoria, decretata da una giuria, non può appoggiarsi all’oggettività dei dati, deve portare con sé un consistente strascico di polemiche. È come se fosse un segno distintivo, come se le polemiche, la loro estensione, la loro virulenza, fossero il bollino di qualità rilasciato per una manifestazione che altrimenti dovrebbe ricordare a se stessa di esistere nella propria invincibile inutilità (in fondo non stiamo mica salvando il mondo!). Se si tratta poi di una manifestazione di cinema, di quella cosa cioè su cui tutti hanno qualcosa da dire perché in fondo si tratta solo di un film (un popolo di allenatori di calcio e critici cinematografici!), e per di più del più importante Festival cinematografico del mondo, allora le cose possono assumere anche un tono surreale, quando non comico. I fatti li conosciamo tutti: tre film di registi italiani nel concorso principale, nessun premio per nessuno dei tre film dei registi italiani. Apriti cielo: «Come si sono permessi? Perché ci selezionano se poi non ci premiano? Che giuria di incompetenti! Lo sapevamo che era tutta una farsa! La Francia vuole solo dimostrare di essere meglio di noi!». Un rincorrersi di dichiarazioni da parte di politici e parlamentari, con ministri che cercano di mettere pace e rappresentanti istituzionali che prendono posizione, il tutto con la minaccia di ritorsioni al prossimo Festival di Venezia e un esercito di spettatori diviso tra chi ha goduto per questo riconoscimento internazionale della mediocrità del nostro cinema e chi si è indignato perché oltralpe non se ne è capita la grandezza! Poi, sono passate un paio di settimane, e tutto il clamore si è sgonfiato, il vento della calunnia e della vendetta placato, il nostro cinema continua a interessare solo quei pochi che se ne vorrebbero davvero occupare. Ma perchè allora tutto questo accanimento? Tutto quel dimenarsi ossessivo su argomenti (spesso veri) che gridavano all’ingiustizia? Un po’, è chiaro, per ragioni meramente narcisistiche, per dimostrare sciovinisticamente che siamo i migliori; un po’ per permettere ad una certa fauna, sempre più informe, di sentirsi parte di un qualcosa di grande e grandioso (certo che bisognerebbe riportare i fatti alle loro effettive dimensioni!); un po’, ed è questo il punto, per la speranza, a tratti sottaciuta, a tratti sussurrata, in ogni caso mai proferita con convinzione, che un bel premio in un Festival internazionale porterebbe clamore, pagine di giornali, curiosità, interviste, attenzione pubblica, spettatori in sala, biglietti staccati, incassi! Perché poi, facendo la tara di tutte le chiacchiere sulla settima arte, sulla bellezza di un film, sulla necessità della cultura di essere sostenuta e appoggiata, è quello che conta! E tutto si risolve in una serie di calcoli numerici e diagrammi per capire in che modo fare incassare un film. Poco altro resta davvero. Perché un Festival ha una utilità immediata e a brevissimo termine: serve per il tempo dell’uscita in sala. Per poi tornare ad essere una manifestazione in cui la boria dei registi si scontra con il pragmatismo dei produttori sotto gli occhi attenti di un esercito di critici e studiosi che ancora credono di contare qualcosa e di indirizzare il gusto del pubblico. Un film in fondo funziona semplicemente grazie al film e al mondo che gli si costruisce intorno come la comunicazione, il posizionamento in alcune fasce di mercato, i tempi dell’uscita. E in tutto questo un Festival spesso non è che una piccola parte, utile soprattutto a risparmiare in comunicazione che ad attrarre davvero un pubblico distratto. Nessun premio avrebbe potuto migliorare le sorti del Racconto dei Racconti di Matteo Garrone come nessuna sconfitta avrebbe potuto affossare il successo di Youth di Sorrentino. La necessità di partecipare ad un Festival (e magari vincerlo) non è quindi finalizzata ad agire sul territorio nazionale (italiano) perché sono pochi i Premi che, almeno qui da noi, hanno la forza di indirizzare il pubblico. La finalità è di aprire il film al mercato internazionale e trasformarlo immediatamente in un prodotto da vendere e comprare. Se anche poi il film non uscirà mai in un altro paese, non importa. L’importante è guadagnare nello scambio. Si tratta della compravendita di un prodotto dotato di un’aurea che rende meno deprimente il lavoro che molti sono costretti a fare. E allora se premiare un film come quello di Audiard (bello, certamente ma sicuramente meno bello di Carol di Todd Haynes e meno complesso di quello di Hou Hsiao-Hsien) significa per una giuria scegliere un’idea di cinema (Garrone, per restare a noi, giocava in un universo cinematografico impossibile da intercettare dalla giuria di Cannes di quest’anno); ma anche che un prodotto (film) ottiene un plusvalore improvviso che qualcuno utilizzerà economicamente. Quindi se è spesso ridicolo analizzare i premi secondo la logica ‘film migliore/ film peggiore’ è però sano accettare che un Festival si basi su logiche di potere e di economia. Per cui se è vero che nessuno influenza le scelte di una giuria, è altrettanto vero che ogni direttore artistico crea le condizioni per le quali quelle scelte siano monitorate e a volte indirizzate. Un’azione rivolta a determinare il valore economico (non commerciale) di un film, la forza di un’industria nazionale che investendo su un prodotto porterà altri capitali in circolazione, la diffusione (relativa, per carità) di un immaginario sul quale poi costruire altri prodotti culturali su cui investire. Un potere che si comincia ad esercitare dalla scelta dei giurati, passando poi alla disposizione in calendario dei film, all’organizzazione delle proiezioni per i giurati fino alla scelta della segretaria di giuria, un soggetto terzo che, organizzando l’agenda dei giurati, i loro spostamenti, dando i tempi delle discussioni, gestendo i verbali, è di fatto l’occhio e l’orecchio del direttore del Festival. E questo con buona pace di tutti.