Ritorno a Srebrenica, a vent’anni dal massacro

A cura del comitato Arci Pescara.

Centinaia di piedi incolonnati e silenziosi marciano. Marciano tra declivi alberati, tratturi polverosi, vallate immacolate. Marciano sotto un sole inclemente, rinfrancati a malapena da un timoroso Grecale, certamente sudati e stanchi ma mai così determinati. Marciano per la pace, e sono tanti, tantissimi. Bambine sorridenti e ignare affiancate da stoici nonni che si appoggiano a nipoti per i tratti più impervi, mogli con lo sguardo chino abbracciate dai propri mariti, figli e figlie della guerra, che vengono da vicino ma anche da molto lontano. Come la nostra Giulia di Pescara. Lei marcia con loro, lei, donna, madre, compagna, arrivata fin lì per vedere, sentire, esserci, riportare. È partita insieme ad altri novemila dal villaggio di Nezuk, per ripercorrere a ritroso la famigerata e infame ‘via della morte’. Si muovono sulle orme di quelle 15mila anime in fuga che cercarono la salvezza a Tuzla, zona che, dopo la caduta di Srebrenica per opera del generale R. Mladic, era sotto il controllo delle forze governative. Costantemente bombardati dall’artiglieria serba, stremati e arresisi agli uomini di Mladic per poi venire uccisi nelle imboscate o in altre località. Gli anziani, le donne e i bambini, consegnati per un crudele gioco del destino dai caschi blu olandesi agli stessi carnefici, venivano invece deportati lontano da ogni speranza. L’11 luglio oltre 50mila persone sono attese a Srebrenica per commemorare il ventesimo anniversario del massacro degli oltre 8.000 musulmani trucidati dalle truppe serbo-bosniache in quel maledetto 1995. È proprio in questa cittadina della Bosnia orientale che sembra, infatti, venire alla luce quella ferita che da decenni contamina le relazioni tra l’etnia serba e bosniaca. Così, mentre tra i boschi di Argentaria (l’antico nome latino della città) le famiglie delle vittime cercano ancora le ossa dei loro cari e tutto ciò che può aiutare a non dimenticare, è al Memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica, dove riposano i resti di quei corpi, bersagli impotenti della più brutale follia fratricida di fine XX secolo, che si affollano le troupe televisive per questo anniversario storico, macchiato ancora dalla cecità e arroganza dei potenti. Infatti, al Consiglio di Sicurezza la Russia ha posto il veto sulla risoluzione che avrebbe finalmente utilizzato la parola genocidio. Il voto era stato già due volte rimandato nel tentativo di convincere la Russia a non opporsi. Invece, poco prima del voto, l’ambasciatore russo all’ONU ha definito la risoluzione «non costruttiva, aggressiva e politicamente immotivata». La Russia aveva proposto di condannare «i crimini più gravi che riguardano la comunità internazionale», ma non era d’accordo nell’utilizzo del termine «genocidio» e soprattutto nel dare la responsabilità della tragedia di Srebrenica soltanto alle forze serbo bosniache. Lo stesso tribunale ONU per i crimini di guerra dell’Aja aveva già definito un genocidio il massacro nella città bosniaca. Ma questo non è bastato. I migliaia di bosniaci mussulmani assassinati. Le decine di fosse comuni. Tutto questo per alcuni non è ancora abbastanza. Sì, come già detto, tanto va ancora fatto. Tanto va ancora ribadito.