Le ambizioni nazionali e internazionali del ‘nuovo sultano’

Di Franco Uda, coordinatore pace, solidarietà internazionale e cooperazione.

«Il nuovo sultano», così molti dei suoi oppositori lo definiscono. Recep Tayyp Erdogan, Presidente della Repubblica Turca, non nasconde le proprie ambizioni nazionali e internazionali e giorno dopo giorno sta proiettando il suo Paese come uno dei protagonisti – nel bene e nel male – della prossima fase. Proveniente da una modesta famiglia, appartiene alla confraternita dei Fratelli Mussulmani ed è ossessionato dall’eredità dello splendore dell’impero ottomano. Consapevole del suo personale valore, sogna di essere un nuovo uomo della provvidenza, non solo per la Turchia – per la quale già lo è dal 2002 – ma anche per il Medio Oriente. Erdogan si è servito per anni dei servigi della potente confraternita Fethullah Gulen per scalare le gerarchie della politica turca, ha scalzato dal potere i generali mandandone centinaia alla sbarra con l’accusa di complotto e muovendosi con grande spregiudicatezza anche contro i suoi alleati iniziali. Su di un altro piano, Erdogan avviò le procedure per fare entrare la Turchia nell’UE, cercando di dimostrarne la democraticità e avrebbe dovuto favorirne lo sviluppo economico, giocando abilmente nella concorrenza Europa/Stati Uniti/ paesi arabi/paesi turcofoni. Contemporaneamente ha fatto di tutto per accrescere le risorse economiche del paese e per migliorare le condizioni dei più poveri, frangia della popolazione organizzata da una solida struttura politico-religiosa, che trova i suoi più fedeli sostenitori e i maggiori consensi per il Partito della Prosperità (AKP). In relazione al ‘problema curdo’ Erdogan aveva ottenuto la pace delle armi. Ha trovato un accordo col vecchio leader del PKK, Abdullah Ocalan – che, per quanto ancora prigioniero nell’isola di Imrali, gode tuttora di grande prestigio tra le popolazioni curde indipendentiste – per avviare un negoziato col PKK. Una forte opposizione interna, che saldava l’estrema destra, movimenti islamici radicali locali e perfino alcuni partiti politici nazionalisti, era fortemente ostile a questi negoziati di pace, ma il Presidente sperava che questa politica di apertura gli avrebbe fatto guadagnare dei voti curdi alle elezioni legislative dello scorso 7 giugno, consentendogli di ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento, che gli era indispensabile per varare una nuova Costituzione in senso presidenziale tagliata a sua misura. Invece è stato il Partito democratico dei popoli (HDP), filo curdo, ad impedire all’AKP di raggiungere la maggioranza assoluta. Erdogan ha allora impedito la formazione di un governo di coalizione per giungere a nuove elezioni legislative che si terranno in autunno. Per preparare a modo il terreno ha accusato i leader dell’HDP di legami col terrorismo e ha dato ordine di bombardare le retrovie del movimento curdo, situate nell’Iraq del nord, per provocare una risposta armata. Erdogan ha seguito con grande interesse le ‘primavere arabe’, soprattutto quando i Fratelli Mussulmani hanno cominciato a riportare dei successi. Ha sperato che il contagio si estendesse, dall’Egitto alla Libia, a tutto il Medio oriente, pensando inoltre che il regime siriano sarebbe crollato rapidamente, rassicurato dal fatto che gli Usa e l’UE avessero intrapreso politiche fortemente ostili al governo di Bachar elAssad. Erdogan si è quindi associato alle iniziative contro la Siria e ha consentito a tutti i movimenti di opposizione armata di passare attraverso il suo territorio, per recarsi nel nuovo teatro di guerra. Ma ha dovuto constatare l’abbandono degli Usa e degli Europei, che hanno smesso di minacciare direttamente Damasco. Un’altra disillusione per Erdogan è stato il fatto che le popolazioni curde siriane del nord non si siano unite ai ribelli. Al contrario, hanno concluso un patto di non aggressione col governo siriano, che ha loro lasciato campo libero, per concentrare le forze nelle zone considerate più vitali. È il caso della battaglia di Kobane: Erdogan ha dovuto consentire il passaggio di peshmerga provenienti dall’Iraq, che andavano in soccorso della guarnigione curda. Per contro ha mantenuto fermo il divieto agli Statunitensi di usare le basi turche per portare soccorso a Kobane. Ciò non ha impedito a questi ultimi di bombardare le posizioni dello Stato Islamico nei dintorni della città assediata. Quando la città è stata liberata, l’ossessione è diventata che i Curdi siriani riuscissero a unire i tre cantoni che si stendono lungo la frontiera, per formare un embrione di Stato. Ha allora ripescato una vecchia proposta di ‘zona tampone’, che dovrebbe essere posta sotto controllo internazionale, e che taglierebbe in due la Rojava. Consentirebbe anche di crearvi dei campi per rifugiati dove la Turchia potrebbe rimandare parte del milione di persone sfollate che attualmente accoglie. Recentemente Erdogan avrebbe aperto le basi turche all’aviazione statunitense in cambio della realizzazione, a termine, di questa zona tampone. L’accordo concluso dai ‘5+1’ con l’Iran sul nucleare, e la prossima fine delle sanzioni, costituiscono per la Turchia una vera sfida per la propria influenza nella regione. Sul piano internazionale, è costretto a ridimensionare le proprie ambizioni, dopo che l’Iran è tornato protagonista della scena internazionale e l’Egitto del presidente al-Sisi ha dimostrato di non essere fuori gioco, come sperava. Le sue recenti aperture verso l’Iran, la Russia e l’Arabia Saudita si inseriscono in questo contesto. Per contro, non sembra disposto a riallacciare con Israele.