Sì alla legge per il Terzo settore, ma non a qualsiasi costo

Di Francesca Chiavacci, Presidente nazionale Arci.

La pioggia di emendamenti presentati al Senato potrebbe far impantanare definitivamente il percorso di approvazione della nuova legge quadro sul terzo settore. Sarebbe un peccato non cogliere l’opportunità di aggiornare e migliorare un complesso di norme complicato e ormai datato. Eppure non crediamo che si debba raggiungere questo obiettivo ad ogni costo, certamente non al costo di approvare una cattiva legge. Il terzo settore italiano è molto cresciuto in questo ultimo decennio, i dati sono state ampiamente commentati e non serve ripeterli. Numero dei soggetti, cittadini coinvolti, percentuale di Pil, occupazione, sono tutti elementi che ci raccontano una realtà vasta e vitale che si è sempre più affermata nella società e nell’economia del nostro paese. E lo ha fatto nonostante un impianto legislativo, come dicevamo, spesso non adeguato. Quando il legislatore si deve cimentare con i temi di una riforma, anche radicale, non può non tenere conto del quadro di realtà, per rafforzarne gli elementi positivi, che in questo caso tutti dicono essere tanti, e superare limiti e contraddizioni. Il rischio che stiamo correndo in questa vicenda ci sembra proprio questo: una discussione che sembra a volte prescindere da elementi di realtà per approdare ad uno schema di razionalizzazione astratto. Ci sono almeno due elementi che ricorrono spesso nella discussione sulla nuova legge e che non ci convincono, anzi ci preoccupano. Il primo è che emerge una visione di terzo settore che inquadra gli aspetti economici a scapito degli altri. L’associazionismo, il volontariato, la stessa impresa sociale, non sono solo qualche punto del Pil: le attività sociali e culturali che vengono svolte ogni giorno da questa moltitudine di soggetti sono la supplenza all’iniziativa sempre più carente delle istituzioni pubbliche e anche il tentativo di dare risposte ad un disagio sociale diffuso. Le decine di migliaia di circoli, associazioni e cooperative non sono solo centri di produzione di servizi ma opportunità di socializzazione, occasioni di partecipazione. Senza questi luoghi, la coesione sociale del nostro paese, già messa a dura prova dalla crisi, si indebolirebbe ulteriormente. Per questo non ci piacciono i vincoli e le limitazioni che da più parti vengono posti alla libera iniziativa dei cittadini di dare vita a un progetto di sussidiarietà. Questa loro libera scelta, spesso difficile e impegnativa, non può essere inquadrata negli stretti parametri di «efficienza ed economicità». Un altro motivo di preoccupazione è la contraddizione tra la tanto proclamata necessità di affrancarsi dal finanziamento pubblico e la mortificazione di chi quella decisione l’ha presa da tempo. La gran parte del terzo settore italiano è composto da associazioni che vivono delle proprie risorse e non percepiscono un solo euro di finanziamento pubblico. Risorse derivate dall’impegno volontario dei propri soci e dalla capacità di autofinanziare le proprie iniziative. Senza alcun lucro personale, ma spesso rimettendoci di tasca propria. Non è possibile, nell’esperienza italiana, separare la finalità sociale dalle attività che vengono, conseguentemente, realizzate. Se si annulla questa connessione non si comprende la vera qualità delle iniziative, potremmo dire la loro ‘utilità sociale’: tutto potrebbe essere erroneamente assimilato ad attività imprenditoriale, a profitto. Ed invece non è così. Ci sono pure altre importanti questioni sulle quali auspichiamo un miglioramento nel testo al Senato e che citiamo solo per titoli: ruolo dell’impresa sociale, ridefinizione del servizio civile nazionale, riorganizzazione dei centri di servizio per il volontariato, creazione di un’authority nazionale. Abbiamo atteso anni per una nuova, buona legge, eppure abbiamo continuato, con fatica, a svolgere la nostra azione. Abbiamo ora bisogno di una legge che ci aiuti a far meglio, non che peggiori la situazione.