Panoramica veneziana

Di Roberto D’Avascio, presidente Arci Movie Ponticelli.

Venezia 72 è stata un’edizione con poche grandi meraviglie cinematografiche, ma con tanti spunti carichi di curiosità cinefila. Non sono passati tanti grandi maestri del cinema, ma tutte le sezioni della Mostra 2015 hanno seminato il proprio terreno, con diversi buoni film da rivedere e riconsiderare. Innanzitutto, ha attirato l’attenzione del pubblico un gruppo di produzioni americane di valore: si segnala il film di Cary Fukunaga (Beasts of No Nation), opera che racconta con dettaglio crudele e con inquadrature di spietata freddezza la formazione alla guerra di un bambino africano, che diventa soldato per sopravvivere alla violenza che improvvisamente ha annientato la sua famiglia e il suo villaggio. Dalle guerre civili africane si passa alla storia sociale della Boston degli ultimi trent’anni, attraverso il racconto delle pericolose collusioni tra mafia irlandese e F.B.I. (Black Mass) e lo scandalo della copertura degli abusi sessuali su tanti bambini, compiuta da preti cattolici, denunciata dal Boston Globe (Spotlight), arrivando infine al grande affresco che Wiseman ha dedicato alle problematiche sociali e ai prossimi tentativi di speculazione edilizia del più multiculturale quartiere di New York (In Jackson Heights), che attraverso una camera, che fa parlare tanti personaggi, restituisce una grande capacità narrativa. Importante è stato anche il passaggio sul grande schermo della laguna veneziana dell’ultimo film di Aleksander Sokurov (Francofonia), sofisticato e potente flusso di immagini che ha trasportato gli spettatori non solo nelle sale del Louvre della Parigi occupata dai nazisti, ma dentro un’amicizia pericolosa e necessariamente sfuggente tra due uomini – un tedesco e un francese – che si sono occupati di salvare opere d’arte, per suggerire i complicati rapporti tra arte e potere. Ad ogni modo, le opere che sono apparse nel complesso più interessanti e stimolanti sono state quelle che hanno provato a rimescolare le carte dell’estetica cinematografica contemporanea, senza tuttavia proporre violente fratture o facili sperimentalismi. Tre film. Il primo è stato El Clan del regista argentino Pablo Trapero, poi premiato giustamente con il Leone d’argento alla miglior regia, che trasferisce una torbida vicenda di sequestri di persona e di feroci ricatti durante la terribile dittatura della fine degli anni ’70 in immagini da quasi commedia, scandita da una ritmica colonna sonora, per raccontare una estrema banalità del male alla Miss Violence. Il secondo è Rabin, the Last Day di Amos Gitai, che mescola sapientemente materiali d’archivio, interviste recenti e ricostruzioni di finzione per rinarrare, girando continuamente attorno al giorno della sua morte, il senso politico e umano della figura di Yitzhak Rabin. Infine, Interruption del regista greco Yorgos Zoi, che punta la propria macchina da presa sulla messa in scena dell’Orestea di Eschilo, opera interrotta forse da terroristi forse da una aggressiva riscrittura scenica, per mettere cittadini/ spettatori al centro del palcoscenico di una forte crisi sociale da affrontare con tutta la fisicità della propria persona.