Arcs, Arci e Ipsia nei Balcani

Una delegazione di Arcs, Arci e Ipsia ha incontrato diverse organizzazioni, volontari, attivisti impegnati duramente nella quotidianità dei Balcani. Di seguito il racconto di Luigi Lusenti, Arci Milano, che ha fatto parte della delegazione. Una ragazza bionda, elegantemente vestita, appoggia sul bancone duemila dinari. Il ragazzo al desk le rilascia una ricevuta e inserisce i soldi in una cassetta. È una sottoscrizione personale, come hanno fatto in questi mesi di emergenza molti belgradesi. Il luogo è il centro per i profughi, l’Asylum Infocentre, aperto dalla municipalità di Sava Mala, il quartiere centrale attorno alla stazione di Belgrado, e dato in gestione a una serie di associazioni della società civile. Qui, i rifugiati che ogni giorno entrano in Serbia e arrivano in città, trovano informazioni su come proseguire il loro ‘viaggio’ verso il nord Europa, come muoversi nella capitale, a quali servizi e aiuti possono accedere, dall’assistenza sanitaria alla cura di minori non accompagnati. Sono presenti perfino delle postazioni informatiche per permettere ai migranti di comunicare con i parenti rimasti a casa. Una navetta gratuita li accompagna in un centro di raccolta dove possono riposare per qualche ora. Infatti tutti i centri aperti nel paese non sono di permanenza ma di transito. Il migrante entrato in Serbia dalla Macedonia o dalla Bulgaria ha 72 ore per raggiungere la Croazia, dato che l’Ungheria si è autoreclusa dietro a chilometri di filo spinato. La Serbia pare oggi il paese che, nonostante una situazione economica ancora difficile, sta affrontando al meglio la crisi umanitaria trovatasi improvvisamente di fronte. Belgrado, che aveva visto in estate migliaia di uomini, donne e bambini accamparsi nelle sue piazze e nei suoi parchi, vive un momento di relativa tranquillità. Sono pochi gli asylanten che arrivano in città. La pressione è al sud dove, a tre valichi al confine con la Macedonia e con la Bulgaria, si accalca una umanità allo stremo per il lungo e faticoso viaggio ma determinata nell’obiettivo di raggiungere la Germania, la Svezia o la Norvegia. Dalla Bulgaria entrano nel paese circa 400 persone al giorno. È al valico di Presevo, frontiera con la Macedonia, dove invece l’emergenza raggiunge picchi di novemila persone in un transito ininterrotto per tutte le ventiquattro ore. Il centro di accoglienza aperto in gran fretta è simile nell’aspetto ai tanti centri di accoglienza che, purtroppo, sono sparsi per il mondo: tende dell’UNHCR, container della Croce Rossa, spazi sanitari e per bambini gestiti dall’Unicef e da molte organizzazioni internazionali di volontariato, dalla Caritas serba al Danish Refugee Council. Davanti al centro una lunga fila di pullman, predisposti dalle autorità, conducono per 15 euro, dopo la registrazione, i migranti fino alla frontiera con la Croazia. La collaborazione fra i due paesi amicinemici funziona a perfezione. Quando si raggiunge il migliaio di persone accalcate al confine serbo, un treno parte dal centro croato più vicino, raccoglie i rifugiati e li trasporta in Croazia, ove ricominciano il difficile pellegrinaggio verso la metà finale. La maggior parte dei profughi sono siriani, ma a Presevo c’è tutto, dagli afghani ai somali, dai pakistani ai curdi. La difficoltà a comunicare è fortissima. Alcuni parlano dialetti locali ed è difficile trovare interpreti. I pacchi cibo contengono una bottiglietta d’acqua, il pane e due scatolette di pesce. La condizione di paese non comunitario, in difficile uscita dalla crisi degli anni novanta dopo le tante guerre balcaniche, con una disoccupazione attorno al venti per cento rende la Serbia non interessante agli occhi dei migranti che la utilizzano solo come canale di passaggio. Ciò la tiene immune, per il momento, dalla ‘paura dell’invasione’. Pure la stampa, sollecitata anche dal governo che spera possa giovare al paese per accelerare i tempi di ingresso nell’UE la dimostrazione di efficienza e di rispetto dei diritti che sta dando la Serbia, mantiene i toni bassi. Potrà durare a lungo questa situazione? A differenza delle altre nazioni balcaniche che, nel summit del 25 ottobre a Bruxelles, non hanno trovato una posizione comune e nessun spirito collaborativo (vedi lo scambio di accuse fra Slovenia e Croazia) la Serbia ha ribadito che non erigerà mai muri o difese di filo spinato. Ma in uno scenario differente anche la ‘piccola’ Serbia potrebbe essere costretta a politiche diverse. Le prime problematicità si stanno già palesando. Berlino inizia a rimandare indietro i profughi che al dissolvimento della Jugoslavia avevano trovato riparo in Germania. Essenzialmente rom che non sono riusciti ad integrarsi. E poi rimane aperta la questione su che fine farà chi non otterrà lo stato di rifugiato dalle autorità tedesche. Non infondata l’ipotesi che molti possano ‘ritrovarsi’ in quei paesi considerati solo di transito: Serbia e Macedonia ad esempio. Il quadro in movimento non impedisce di porsi alcune domande: quanto costa in vite umane questa crisi? Quanto costa in soldi, in strutture, in devastazione del territorio l’immenso flusso di migranti? Certamente meno che aprire dei corridoi umanitari in Siria, come si fece con la guerra nella ex Jugoslavia, da cui portare in salvo le vittime dell’ennesimo conflitto nell’area mediorientale. Sarebbe anche un buon modo per ‘colpire’ i trafficanti di persone che organizzano i ‘tour’ all inclusive.