La guerra in tv

Di Vincenzo Vita esperto di comunicazione.

Molto severo il giudizio autorevole di Vittorio Roidi sulla copertura televisiva della tragedia di Parigi. Si trattava infatti di fare informazione su eventi figli dell’era veloce e digitale, non certo di un passato arcaico e arretrato. Tant’è che i video dell’Isis sembrano confezionati da uno studio pubblicitario. Del resto, sotto le vesti tribali e i turbanti che inquietano l’immaginario occidentale, non mancano giovani europei. Ecco il punto, allora. La media mediatica nell’approccio ad un fenomeno così lontano dagli archetipi consueti è vittima di uno spiazzamento. Abituato a narrare omicidi singoli o plurimi, eccidi inerenti ai conflitti tradizionali, il flusso non sa come raccontare il nuovo terrorismo dell’epoca globale, confuso con l’Islam e ridotto ad una deviazione religiosa estremista. In verità, si è vista la distanza abissale tra la realtà e la sua rappresentazione. Troppo deboli e sommarie sono le culture geopolitiche e il giornalismo non riesce a tenere il passo della globalità. A parte il caso di taluni talk trasformatisi persino nella tragedia in mediocre operetta. La quantità non è mancata. Il 13 novembre la Rai ha avuto 37,3 milioni di contatti, con un incremento di 1 milione rispetto al venerdì precedente. Il giorno dopo si è arrivati a 40 milioni, stesso tetto toccato domenica. Se li sommiamo con le reti private, e pur considerando un ampio zapping, è lecito azzardare che pressoché tutti gli italiani abbiano seguito le news televisive. Non contro la rete, bensì con la rete. Proprio Internet si è confermato cruciale per riannodare i fili di comunicazioni interrotte, per garantire un network democratico. La dieta mediale si è allargata. Tablet e Iphone hanno messo in circolazione documenti audiovisivi essenziali per la conoscenza e la memoria. Tuttavia la tv, che ci avvolge con le non stop e ci assale con l’onnipresenza, poco ci dice su che accade e perché, prigioniera della sintassi della cronaca nera. La guerra in diretta a sua volta, come hanno rilevato la sociologa Sara Bentivegna dopo la prima avventura nel Golfo e il bel volume sui Linguaggi della guerra del semiologo Federico Montanari, non sfugge ai rischi di manipolazione e di soggezione alle strategie comunicative delle parti in campo. E, attenzione, proprio Daesh sembra provvista di una notevole capacità sul terreno dei media, vecchi e nuovi. Serve, dunque, un cambio di passo nella qualità dell’offerta e nella ricerca delle competenze necessarie. Osservare l’obbligo della verità, quando quest’ultima si fa scomoda perché ci interpella sulle scelte abnormi fatte dall’occidente in Iraq, in Afghanistan, in Libia o in Siria o sulle diffuse complicità dell’industria delle armi, è il dovere primo. È stata ricordata – a proposito di un terribile titolo di Libero – la Carta di Roma, un importante riferimento per la deontologia. È urgente, però, battersi per un’informazione sempre indipendente e libera. Per evitare che «L’état d’urgence permanent» evocato da Hollande non si risolva in un’eterogenesi dei fini. Guai a rispondere alla violenza con la censura. Sarebbe la resa.