COP21: proseguire la mobilitazione per costringere gli Stati al rispetto degli impegni assunti

Di Filippo Sestito coordinatore nazionale Arci Ambiente, difesa del territorio, beni comuni e stili di vita.

L’avvenimento principale di quest’anno, la COP21 di Parigi, si è chiuso con un accordo approvato dai 195 paesi presenti. Il momento è importante, forse storico. Non per l’accordo in sé, ma perché finalmente si è affacciata sul palcoscenico mondiale una nuova soggettività politica. Centinaia di migliaia di attivisti e militanti, infatti, hanno dato vita ad un movimento internazionale per la giustizia climatica, ambientale e sociale, il solo in grado di ribaltare i rapporti di forza esistenti, disegnare nuove funzioni per le istituzioni pubbliche, rimettere al centro il chi, il come e il dove rispetto alle decisioni che governano le nostre vite e determinano i modi di produrre e di consumare. Ma torniamo, prima di addentrarci nelle possibili evoluzioni politiche del dopo Parigi, al merito dell’accordo. L’aspetto più rilevante è che si tratta di un accordo universale, sottoscritto da ben 195 paesi. Un accordo che unisce e non divide gli stati. Cosa di non poco conto in questa fase storica. Si è riusciti finalmente a parlare di una soglia più bassa del tetto dei 2 gradi dell’aumento della temperatura, fino ad arrivare a 1,5 gradi, anche se nel testo finale non vi è scritto nulla di preciso. Pure sulla ‘differenziazione’ tra i paesi più ricchi, che hanno inquinato fino ad oggi, ed i paesi più poveri, che chiedono maggiori finanziamenti per affrontare i cambiamenti climatici, si registrano dei passi in avanti. Si fa infatti riferimento nel testo alla differenziazione ed ai popoli indigeni, anche se non vi è certezza che i 100 miliardi di dollari all’anno, necessari ai paesi più poveri per far fronte ai danni del climate change, ci saranno anche oltre il 2025. L’impegno all’equilibrio, a partire dal 2050, per quanto riguarda la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, è pure presente nel testo, ma non si fa cenno né alla misura di questa riduzione né al modo in cui dovrà essere raggiunta. Sarà inoltre tutto affidato ad una presunta ‘responsabilità’ degli stati, mentre non tutti i paesi hanno assunto impegni precisi e presentato i propri piani nazionali. Deve peraltro segnalarsi da subito che, ove pure tutti i piani nazionali venissero rispettati – e non è stata prevista alcuna sanzione per eventuali inottemperanze, nonostante la proclamata vincolatività giuridica dell’accordo -, il riscaldamento climatico si stima salirà ben oltre i 3°C. Nessuna possibilità dunque di potere intervenire, neppure da parte dell’Onu, affinché gli impegni presi siano effettivamente rispettati. Troppo lontana è, d’altra parte, la prima occasione di revisione degli impegni, prevista per il 2025 e con un primo momento di verifica fissato per il 2023. Siamo ancora distanti dai necessari interventi strutturali, quali in particolare: decarbonizzazione con date certe; riconversione ecologica; eliminazione dei sussidi alle energie fossili; strategia per il cento per cento di energie rinnovabili. Nonostante ciò, non si può non vedere che le tecnologie a supporto delle energie rinnovabili hanno fatto negli ultimi anni passi da gigante, abbattendo i costi e introducendo forme di democrazia energetica che iniziano a cambiare e cambieranno strutturalmente, nei prossimi anni, il modello economico, le forme e le pratiche della politica. Speriamo che anche Renzi se ne renda conto e passi dal tutelare le multinazionali del petrolio a favorire e promuovere le energie rinnovabili e sostenibili. La conferenza di Parigi sul clima, quindi, la si può definire un successo? Ancora non si può dire, semplicemente perché non si è conclusa. L’accordo, in realtà, dovrà essere ratificato nel 2016 da almeno 55 paesi. Siamo quindi soltanto all’inizio di un percorso. Quel che è certo è che i governi non andranno oltre i pur lodevoli auspici dell’accordo. Toccherà al movimento proseguire la mobilitazione per inchiodare gli stati al rispetto degli impegni assunti. Come? Dando forza e gambe a questo movimento, proseguendo nel lavoro di aggregazione di tutte le realtà grandi e piccole, provando a coinvolgere tutti, senza ideologismi, con concretezza e con un nuovo ‘linguaggio’. E in Italia? A prima vista la situazione sembra più complessa, visto lo stato in cui si trovano tutti i corpi intermedi, ma la Coalizione Clima, composta da circa 250 organizzazioni, ha dimostrato che i temi della giustizia ambientale e sociale, degli stili di vita, della pace e di un modello alternativo al neoliberismo sono temi trasversali e unificanti. A patto, però, che ci si radichi nel territorio. Riconnettendo le diverse realtà che stanno già sperimentando modelli alternativi sul versante della produzione e consumo di energie rinnovabili e sostenibili, degli stili di vita, del mutualismo, del recupero e della gestione diretta di spazi, delle autoproduzioni, della lotta per la partecipazione ai processi decisionali, dei diritti di cittadinanza, dei diritti del lavoro, della lotta alle mafie, della difesa della salute, del diritto alla conoscenza e all’istruzione, dei diritti civili, dell’accesso alle informazioni, del potenziamento dei servizi di welfare, del contrasto alla privatizzazione dei beni comuni. Lavorando contemporaneamente dal basso e dall’alto, senza leaderismi esasperati e senza che i destini dei singoli siano di intralcio. Precondizione necessaria è prenderci cura delle relazioni tra di noi e all’interno delle comunità di riferimento e costruire un ambizioso piano di manutenzione della dimensione democratica nella quale ci troviamo ad operare. Se procederemo in questa direzione e se affronteremo bene le questioni aperte, senza eluderle, potremo sperare di aver posto le basi per la nuova stagione politica a cui tutti, da anni, stiamo lavorando.