La geopolitica del caos e il ruolo della società civile

Di Franco Uda coordinatore nazionale Pace, solidarietà e cooperazione internazionale.

«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur»: mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata. Così, forse, Tito Livio avrebbe potuto intitolare un proprio editoriale riferendolo ai giorni nostri. Sembra che, effettivamente, mentre l’intero mondo brucia, in altri luoghi si continui a convocare tavoli e conferenze senza produrre alcuna strategia che possa, se non altro, delimitare l’incendio. Il panorama internazionale è quantomai complesso e la definizione di ‘geopolitica del caos’, data a suo tempo da Ignacio Ramonet, appare irraggiungibile nella sua lucida attualità. Daesh ha alzato il tiro: dalle prime esecuzioni a giornalisti e cittadini occidentali eseguite con sapiente uso dei mass media, l’attacco è stato portato nel cuore dell’Europa, dall’incursione nella redazione del giornale Charlie Hebdo alla strage del Bataclan, sempre a Parigi; dall’attentato a Istanbul, nel centro storico e turistico della città, al recente blitz al terminal petrolifero in Libia. Dai luoghi simbolici – in cui la furia iconoclasta e la barbarica distruzione di antiche e preziose vestigia del passato si sovrappone alla sanguinosa contrapposizione alla cultura laica e consumista – siamo passati all’attacco ai gangli economici di intere nazioni – il turismo, le risorse energetiche. Tutti dicono di fare, o di voler fare, la guerra contro lo Stato Islamico, ma gli unici che stanno davvero pagando con la vita questa guerra – le popolazioni curde – sono martoriati da un vero e proprio regime – quello di Erdogan – che li perseguita da decenni e impedisce loro l’agognata autodeterminazione. Lo scontro tra Iran e Arabia Saudita, condotto in questi anni in modalità mediata attraverso conflitti regionali, diventa diretto e coinvolge l’imponente mondo islamico, incancrenendo la frattura secolare tra sciiti e sunniti. Le due superpotenze del secolo breve non sembra possano attualmente svolgere un ruolo né trainante né polarizzatore nei confronti degli altri Paesi, intrappolati nella divergenza riguardo il futuro della Siria: la politica di Obama del non-intervento e del riequilibrio delle potenze nell’area mediorientale e arabica sarà certamente rimessa in discussione dal prossimo Presidente degli Usa, chiunque sia, mentre Putin, dopo un primo e deciso intervento nell’area calda di confine tra Turchia, Siria e Iraq, prosegue gigioneggiando con dichiarazioni a sostegno dell’uso dell’atomica e nello scontro personale tra imperii di una volta – lo Zar russo contro il Nuovo Califfo turco. L’Europa, priva di una qualsivoglia linea e leadership politica, sceglie di non scegliere, facendosi dettare l’agenda dalle paure e inadeguatezza dei propri governanti e dagli egoismi nazionalistici dei propri Paesi: il risultato è l’accelerazione verso un modello di fortezza armata e la compressione delle libertà individuali dei cittadini. A farne le spese i ‘dannati della Terra’, quelle donne, uomini e bambini che fuggono da guerre, persecuzioni e miseria attraverso il Mediterraneo o le vie balcaniche, per trovare muri, ostilità o indifferenza. In questo quadro, agghiacciante per il combinato disposto di interessi economici e inettitudine della classe politica mondiale, il nostro spazio d’azione, quello della società civile, si è notevolmente ridotto. Quella che fu definita una delle superpotenze mondiali sembra oggi annichilita e disorientata di fronte a tanta cruenta barbarie e inedita modalità dei conflitti: la guerra è cambiata, non si combatte più sui fronti, il ruolo degli stessi Stati è profondamente differente, si fa difficoltà a distinguere i buoni dai cattivi… Non riusciamo più a individuare l’oggetto prevalente, inseguiamo tutti gli scenari, consegnandoci all’impotenza. Abbiamo bisogno di ri-declinare le categorie che hanno caratterizzato storicamente tutto il movimento pacifista: l’antimperialismo, la guerra convenzionale e simmetrica, gli interventi e il ruolo delle Nazioni Unite. Dobbiamo farlo in una contingenza che presenta estreme difficoltà nella mobilitazione di massa, perlomeno nella traduzione della non-adesione alla logica del conflitto alla mobilitazione popolare. L’Arci, che ha vissuto una fase di grande protagonismo nella stagione dei movimenti contro la guerra, sente oggi tutto la responsabilità di questa eredità e il bisogno di rispondere con coraggio e pragmatismo a una grande domanda, quella che si pongono tante altre organizzazioni che, come noi, hanno attraversato ‘dalla parte buona della vita’ questi ultimi decenni: come si può rilanciare l’iniziativa politica che coinvolga cittadine e cittadini in una fase come questa? L’obiettivo è certamente quello di creare le condizioni culturali e politiche per un risveglio di cittadinanza, un protagonismo della società civile che non vuole arrendersi nè alle logiche di guerra né a quelle del terrore. Possiamo farlo innanzitutto rafforzando ed estendendo la rete delle alleanze, contribuendo a rendere più robusti i sodalizi con le altre organizzazioni che si impegnano per il disarmo, la nonviolenza, contro il razzismo e per i diritti dei migranti, per i diritti sociali e civili, per l’ambiente e la giustizia climatica. Lanciando, unitariamente, una grande campagna di pedagogia popolare e di mobilitazione contro la guerra, che intersechi non solo tutti i campi d’azione che ad essa sono correlati ma sappia anche riportare nei territori l’azione politica a partire proprio dalle vertenze e contraddizioni che lì si manifestano, in ogni luogo con la propria vocazione, riattivando la soggettività politica plurale. Individuando il nostro interlocutore politico e istituzionale al quale sottoporre e col quale lavorare per le proposte di alternativa: dalla legge di iniziativa popolare della campagna Un’altra difesa è possibile alla nuova opportunità dei Corpi civili di pace. Sperimentando nuove forme di coinvolgimento delle piazze virtuali, con le pratiche del cyberattivismo che già coinvolgono milioni di cittadini. C’è un gran lavoro da fare e ce la faremo solo se saremo capaci di elaborare un pensiero circolare e olistico, che sappia produrre nuovi linguaggi, approcci e pratiche che siano in grado di riconquistare gramscianamente l’immaginario collettivo dei cittadini.