L’Italia va alla guerra

Di Francesca Chiavacci Presidente nazionale Arci

Guerra. L’Italia non lo dice, ma praticamente si appresta a farla. In Libia non vengono smentite le voci di piani militari già pronti. In Iraq siamo pronti ad aumentare l’impegno militare nella lotta contro gli integralisti di Daesh. Sullo scenario iracheno, fra Erbil, Bagdad, Kirkuk e le forze dell’Aeronautica basate in Kuwait sono già operativi circa 700 militari, inquadrati nella ‘Coalition of the Willing’ a guida americana su richiesta del governo iracheno. A essi, visto che Bagdad ha sciolto le riserve affidando alla Trevi di Cesena l’appalto per l’intervento di restauro urgente della diga di Mosul, si affiancheranno i 450 militari previsti per la difesa dei lavori, e forse altri 130 operatori di soccorso, con elicotteri attrezzati per il recupero dei servizi e un campo di assistenza. Siamo convinti che la guerra, anche se non esplicitamente, stia permeando ogni aspetto del dibattito culturale e politico, che si tratti di una supposta guerra di religione, o di una guerra combattuta nel ‘fronte interno’ attraverso la militarizzazione delle frontiere e dell’ordine pubblico, la compressione progressiva dei diritti umani e civili di migranti, rifugiati e della cittadinanza tutta, o ancora l’allargamento delle maglie dello stato di eccezione proprio della deriva securitaria nella lotta al terrorismo. La stessa Unione Europea, oltre a confermare tutta la sua storica incapacità di attuare una politica estera coerente e unitaria, subisce nei fatti l’impostazione reazionaria di paesi come l’Ungheria o la Polonia, insieme alla volontà, sempre più diffusa, di sospendere il Trattato di Schengen, tanto che per la prima volta dalla sua nascita ha di fronte a un serio rischio di disintegrazione. L’impoverimento di massa e l’insicurezza sociale, dovute alle politiche neoliberiste e all’austerità, alimentano in un circolo vizioso la propaganda dei razzismi, dei nazionalismi e populismi reazionari, delle destre estreme. In questo scenario internazionale il nostro Paese, al di là della querelle con la Commissione Ue sui conti, appare schiacciato solo su un’idea di perseguimento di interessi economici, rimane complice nella vendita di armi ovunque (dall’Arabia Saudita, impegnata in una guerra per procura contro l’Iran in Yemen, alla Siria, alla Turchia), e per non vedersi tagliato fuori dai giochi delle superpotenze, si riafferma un impegno in teatri di guerra come l’Afghanistan. Siamo dunque fortemente preoccupati dal fatto che le guerre in corso in Siria ed in Libia vedano l’Italia coinvolta in nuove coalizioni internazionali, che in realtà nascondono interessi economici e nelle quali l’uso dello strumento militare rischia di allontanare ulteriormente le prospettive di pace. L’Italia potrebbe invece giocare un ruolo di primo piano nella soluzione politica e diplomatica alla minaccia di Daesh, agendo sul piano umanitario, quello diplomatico e del sostegno ai processi di pace e riconciliazione tra comunità, già avviati in Iraq con il sostegno dell’ONU e di associazioni internazionali come la nostra. Gli investimenti economici e di energie che il nostro Paese impiega per la lotta al’Isis dovrebbero essere spostati dal fronte militare a quello politico.