A Calais, racconti della Jungle nell’attesa dello sgombero

Di Sara Prestianni ufficio Immigrazione Arci

Il Governo Francese ha annunciato che entro la sera del 23 febbraio tutti i migranti che abitano la parte Sud della Jungle dovranno abbandonare le loro capanne prima che siano rase al suolo. Il Tribunale di Lille – presso cui le associazioni francesi avevano fatto ricorso per fermare la distruzione – ha rinviato la decisione di qualche giorno. Migranti ed associazioni restano in attesa di capire quale sarà il futuro di uno dei più grandi accampamenti di migranti in Europa. Le autorità francesi propongono come alternativa ai migranti che saranno sgomberati o un posto in un container o la partenza per un CAO – centro di ‘orientamento’ – dove potranno stare qualche mese, il tempo di decidere se presentare domanda d’asilo in Francia o tornare nel proprio paese. Le associazioni contestano, oltre all’invivibilità dei container, l’insufficienza dei posti – solo 400 a fronte di 3400 sgomberati. La Jungle si è formata da una decina di mesi per decisione dello stesso Governo Francese che – dopo aver cacciato i migranti dalla città – li aveva relegati nella zona industriale. Grazie all’aiuto di associazioni francesi e volontari venuti da tutta Europa, la bidonville si è formata e via via ingrandita. Capanne in legno hanno preso rapidamente il posto delle tende. Lungo i dedali dell’accampamento si alternano negozi e ristoranti con specialità afgane, irachene, eritree; chiese e moschee, un teatro, punti di informazione giuridica, di distribuzione di vestiti, cucine collettive. Seppur precaria, la bidonville di Calais rappresenta una forma di vita e di socialità che contrasta con l’asetticità e la freddezza dei contenairs proposti. Appoggiati uno sopra l’altro, recintati – per accedervi bisogna fornire l’impronta digitale – risultano comunque coprire uno spazio insufficiente per tutti coloro che perderanno l’alloggio una volta distrutta la Jungle. L’altra alternativa risulta ancora più improbabile: il trasferimento in centri di accoglienza temporanea in attesa di decidere se chiedere l’asilo in Francia o fare ritorno nel proprio paese. Per chi tenta il passaggio da mesi verso l’Inghilterra – rischiando la vita all’interno di un camion e avendo già pagato la metà del costo del ‘salto’ – chiedere l’asilo in Francia o – cosa ancora più improbabile – tornare nel proprio paese in guerra appare una scelta impossibile. Le ore sono contate per una larga parte della bidonville, a cui seguirà la distruzione della parte restante, ma i migranti sembrano determinati a non lasciare le loro – seppur precarie – abitazioni. Le associazioni li affiancano e promettono dura resistenza a questo progetto che pensa che riducendo il numero di ‘posti letto’ si riduca anche il numero di persone. Chi sta a Calais sa bene che cosi non è mai stato: alle numerosissime distruzioni delle varie Jungles che si sono susseguite nella regione negli ultimi quindici anni è sempre seguito si riempie di fango. La terra su cui poggiano delle precarissime tende si trasforma in pantano. Aschar ha 15 anni. È venuto a Grande Synthe solo, suo padre vive in Inghilterra, ma non riuscendo a raggiungerlo per vie legali, ha deciso di affidarsi ai trafficanti. Aspettando che spiovi mi invita a bere un tè con altri giovani kurdi al riparo della loro tenda. Hanno acceso un piccolo fuoco. La legna si è bagnata e per mantenere viva la fiamma bruciano la plastica che si accumula attorno a loro e che produce un fumo intenso e nero che riempie i polmoni. Scherzano – come ogni ragazzo della loro età dovrebbe fare – poi i loro volti si fanno seri quando raccontano dei tentativi notturni di andare in Inghilterra. Una volta sono finiti in un camion-cella frigorifera a meno 20 gradi, ci sono rimasti 40 minuti per poi rendersi conto che andava in Belgio e sono scesi. A quella temperatura – mi spiegano – perdi i sensi, bisogna tenersi svegli, se no ti ritrovano cadavere. A volte arriva il ‘commando’, nei parking dove cercano di nascondersi nei camion, che li picchia con i manganelli e riempie l’aria di gas lacrimogeni al peperoncino. Così come li chiamavano anche a Patrasso, il ‘commando’, per i rifugiati, è la polizia che li caccia dai parcheggi, li perseguita nella notte ricorrendo anche alla violenza. L’amico di Aschar è maggiorenne e viene dall’Aghanistan. Dentro la giacca, arrotolato in un sacchetto di plastica nero, ha un permesso di soggiorno italiano. Come lui, molti altri che prima di arrivare a Calais o Grande Synthe sono passati dall’Italia, rimanendoci giusto il tempo per ottenere la protezione umanitaria e per capire che non c’è futuro per loro da noi. Snocciolano i nomi delle città in cui sono stati, ripetono le poche parole in italiano che hanno imparato per strada. A differenza di Calais su cui si concentrano tutti gli sforzi repressivi del Governo – grazie anche ad una sindaca di destra apertamente ostile ai migranti – a Grande Synthe un sindaco solidale ha proposto la costruzione di un accampamento alternativo, in collaborazione con MSF, che sarà aperto il 1 marzo. di Sara Prestianni ufficio Immigrazione Arci un aumento della precarizzazione della vita dei migranti e una dispersione in altre Jungle della Regione, mai una diminuzione dei migranti presenti. Ma le altre Jungle sono altrettante piene e in condizioni ancora più critiche. Se Grande Synthe – l’accampamento a una trentina di km da Calais – ospitava a dicembre 1500/2000 migranti, ora sono 3000, principalmente curdi d’Iraq e Siria. Sotto la pioggia battente dell’inverno del Nord della Francia, la Jungle 3 arcireport