L’accordo con il dittatore sudanese.

Il 4 agosto il Governo Italiano firmava un accordo con la dittatura sudanese alla presenza del capo della Polizia Gabrielli e dei rappresentanti del Ministero dell’Interno e degli Affari Esteri. Si tratta di un accordo di polizia, memorandum of under standing, formula già adottata nel 2015 con il Gambia, altra dittatura africana. L’accordo è stato firmato senza essere presentato nè ratificato dalle Camere e il contenuto resta ad oggi ancora segreto, in flagrante violazione dell’articolo 80 della Costituzione che prevede che«le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica…o importano oneri alle finanze…». La Costituzione è doppiamente violata, non solo perché l’accordo ha un carattere politico, ma anche perché in cambio della firma al Sudan sono stati promessi 100 milioni di euro dai Fondi istituiti alla Valletta. Varie fonti affermano che i primi fondi europei siano stati dati ai janjaweed, le milizie paramilitari sudanesi diventate famose per le atrocità commesse in Darfur. A dei sanguinari miliziani l’Europa avrebbe dunque deciso di affidare il controllo delle frontiere per impedire a eritrei, etiopi e sudanesi di avvicinarsi alla Libia per poi prendere il mare verso l’Italia. Le retate di centinaia di eritrei nella primavera di quest’anno dimostrano come la milizia abbia preso sul serio il suo ruolo di gendarme. Le autorità italiane non tardano a verificare l’operatività dell’accordo. Il 24 agosto dall’aeroporto di Torino parte un aereo con 48 migranti sudanesi che, dopo uno scalo al Cairo, atterra a Khartoum. Tra i 48 alcuni provengono dall’insanguinato Darfour. Gli espulsi, raggiunti a Khartoum, raccontano l’inganno e la violenza dell’operazione «Mi sono ritrovato con una quarantina di connazionali, ci hanno sequestrato telefoni e borse e ci hanno obbligato a dare le impronte per l’ennesima volta, percuotendo chi si opponeva. In seguito ci hanno portato alla Questura di Imperia, dove tre funzionari sudanesi ci hanno spiegato che ci avrebbero riportato a Khartoum il giorno dopo. In serata la polizia ci ha diviso in tre gruppi, ho dormito in cella e alle 5 del mattino ci hanno portato all’aeroporto di Torino, ognuno scortato da due agenti». I tentativi di difesa delle autorità italiane sono ben poco convincenti. Da un lato Alfano dichiara che i sudanesi sono stati espulsi perché non avrebbero fatto richiesta d’asilo. Il che è spiegabile visto che sono stati arrestati a Ventimiglia, dove si trovavano proprio perché volevano fare richiesta di protezione internazionale in un altro paese. Ancora più grave la difesa della polizia italiana che definisce il Sudan «un paese pienamente riconosciuto dall’Italia», nonostante sul suo presidente pesino due mandati di cattura da parte della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità in Darfur. Siamo al paradosso di un capo di stato che se venisse nel nostro paese, dovrebbe essere arrestato all’aeroporto dalla polizia con cui firma accordi sull’immigrazione e che lo ritiene leader di «un paese pienamente riconosciuto dall’Italia».