Definire ‘storica’ la vittoria di Hollande nelle presidenziali francesi non è affatto esagerato né retorico. Con Hollande per la seconda volta dal dopoguerra, 31 anni dopo Francois Mitterrand, un socialista entra all’Eliseo. Non si tratta quindi di un’alternanza consuetudinaria. Avviene sulla base di un voto altamente partecipato, in controtendenza esplicita con quella crisi della politica che da più parti in Europa si è venuta manifestando. Si realizza sulla base di una scelta netta e consapevole da parte degli elettori che ha riportato in auge il clivage, ovvero la distinzione, fra destra e sinistra, altrove alquanto sfumata. Tanto è vero che sia la sinistra di Melenchon, quanto e purtroppo la destra estrema della Le Pen, ne escono enormemente rafforzate.
Lo ha dimostrato una campagna elettorale nella quale i contenuti programmatici hanno contato moltissimo e lungo la quale il candidato vincente non ha avuto paura di affrontare tematiche che da noi sarebbero considerate addirittura tabù sotto elezioni, come il tema dell’aumento della tassazione sui redditi più alti. Il fatto stesso che Hollande sia stato considerato dai mass media un uomo ‘normale’, ovvero una figura in partenza persino opaca, rafforza il valore contenutistico della sua affermazione che ben poco deve alla dimensione leaderistica della politica. Né vale l’argomento portato da alcuni commentatori, come Giuliano Ferrara, secondo cui è più Sarkozy ad avere perso le elezioni che non Hollande ad averle vinte.
È certamente vero che, come ha detto il filosofo pacifista Marek Halter, Sarkozy non ha fatto nulla per evitare di passare per ‘il presidente dei ricchi’ in piena crisi economica. È altrettanto vero che non gli ha giovato il gradimento esplicito espresso in piena contesa elettorale dalla Cancelliera Merkel che certo in Francia non gode di sfrenati entusiasmi.
Ma in una contesa a due, distinguere i meriti dell’uno dai demeriti dell’altro è esercizio puramente tautologico, oltre che praticamente impossibile. Se tutto questo può e deve essere salutato con grande soddisfazione; se un elemento di svolta nell’intero quadro politico europeo è stato così immesso; se è pensabile, oltre che auspicabile, che tale elemento possa in un futuro assai prossimo innestare altri fattori positivi di cambiamento, sarebbe un grave errore non tenere conto delle difficoltà che un effettivo processo di cambiamento in Francia è destinato a incontrare. Innanzitutto non si può dimenticare che se la vittoria di Hollande si è avvalsa della prevedibile impossibilità di un travaso dei voti dell’estrema destra su Sarkozy al secondo e decisivo turno, resta il fatto che il quadro degli orientamenti politici dell’elettorato francese vede la destra nel suo complesso ancora maggioritaria.
Saranno le elezioni legislative tra qualche settimana a verificare se la spinta della vittoria socialista alle presidenziali sarà in grado di produrre un effettivo e profondo cambiamento negli orientamenti politici. Saranno quindi decisive le prime mosse del neoeletto presidente, sia sul piano interno che su quello europeo e internazionale, per molti versi ancora più decisivo. Infatti il programma che Hollande ha prospettato è impegnativo. Ha parlato di ritiro anticipato delle truppe dall’Afghanistan entro il 2012, di volere privilegiare il dialogo negoziale con l’Iran, distinguendosi nettamente dalle mosse interventiste dell’ultimo Sarkozy, pur ritenendo salda la presenza della Francia nella Nato. Sulle questioni economiche si è speso per aumentare al 75% l’imposta sui redditi superiori al milione annuo; per reintrodurre la settimana lavorativa di 35 ore; per trovare lavoro ai giovani; per cancellare le norme regressive e di allungamento dell’età pensionabile. Sul terreno dei diritti civili ha aperto al diritto di voto nelle elezioni amministrative per gli immigrati e ai matrimoni fra gay. Ma è soprattutto sul terreno della risposta alla crisi che Hollande si gioca la partita. Qui, e non a caso, i contorni si fanno più confusi. Ha detto che vuole rinegoziare il fiscal compact, cioè la stretta sui bilanci europei decisa in sede Ue che i parlamenti nazionali dovrebbero ratificare entro il prossimo giugno. Tornare indietro su questo punto non è semplice, vista la netta opposizione tedesca. D’altro canto la prima preoccupazione di Hollande è stata di tranquillizzare i vicini tedeschi. Né sono possibili equilibrismi linguistici, quali quelli con i quali si sta esercitando Monti in questi giorni, che cercano di coniugare il rigore con la crescita.
La situazione della crisi è così grave che semplici palliativi non servono. Ci vorrebbe una svolta decisa nei programmi politici ed economici in senso antirecessivo, ma questa in Hollande, vuoi per scelta di fondo, vuoi per prudenza, non appare. Così che un grande intellettuale come Todorov può con ragione affermare di non avere udito da Hollande una parola «veramente diversa sull’Europa», come ad esempio la sua riforma politica che richiederebbe ben altri poteri al Parlamento eletto, in luogo dello strapotere della Commissione nominata. Se la Francia apre un nuovo spiraglio in Europa, il successo del suo nuovo corso dipende anche da quello che succede in altre parti. In Grecia ad esempio, dove va valorizzata l’affermazione di Syriza, coalizione di sinistra che critica la Ue a partire da una posizione europeista. Nel nostro paese, in cui non dobbiamo attendere la salvezza da fuori ma costruirla con le nostre mani. In Germania, ove è tutt’altro che impossibile una sconfitta elettorale della Merkel, ma rimangono incerti schieramenti e politiche degli eventuali vincitori. Nella società europea, ove il peso dei movimenti contro il rigorismo neoliberista deve farsi sentire con più forza, in vista anche delle prossime discussioni parlamentari sul fiscal compact.