Riforma Rai: dall’egemonia dei partiti a quella del governo

Di Lazzaro Pappagallo, segretaria Associazione Stampa Romana.

Tra bravi bambini si dice così: tu dai una cosa a me, io ne do una a te. Nella Rai degli anni ‘80 le casacche delle assunzioni si scambiavano tra un democristiano, un comunista, un socialista e uno bravo. Erano gli anni della fine del monopolio pubblico dell’etere, della Rai di Bernabei. Quello schema è stato aggiornato nel nuovo millennio dalla legge Gasparri. Raiset aveva trovato nella Gasparri una plastica cornice legislativa, ma Raiset è stata duramente contestata, oltreché da dipendenti e sindacati come Usigrai, soprattutto dai cittadini. È cresciuta nel decennio scorso una diffusa consapevolezza per abbattere il sistema partitocratico, per chiedere che l’azienda di servizio pubblico, la più grande impresa editoriale e culturale del paese, potesse tornare alla società civile, a chi paga il canone, alla sua mission. Da quel movimento sono nati progetti che negavano alla politica di fare il bello o il cattivo tempo in Rai, allontanandola dalla gestione. Il testo licenziato dalla Commissione del Senato, figlio del governo Renzi e votato da tutte le forze politiche, si muove invece nel segno della continuità. Il ‘dinamismo’ renziano si ritrova nella maggiore autonomia decisionale dell’amministratore delegato, nella riduzione da nove a sette dei consiglieri di amministrazione, di cui però il governo ne esprime due e la sua maggioranza, sui quattro scelti da Camera e Senato, non si farà sfuggire l’occasione di nominarne altri due, garantendosi così il controllo politico del board. Sulla nomina dei direttori di testata, il Cda esprimerà un parere vincolante a maggioranza dei due terzi. In pratica eserciterà un potere di veto o di accompagnamento sui poteri dell’amministratore delegato. In teoria questo passaggio dovrebbe assicurare una maggiore democraticità nella gestione delle nomine; in pratica rischia, in nome delle larghe intese, di smorzare qualsiasi innovazione nel settore delle news. Qua e là si avverte lo sforzo di fare qualcosa di diverso: il consigliere di amministrazione scelto dall’assemblea dei dipendenti; la possibilità di sganciare la Rai dalla logica del codice degli appalti per renderla più lepre che tartaruga; il riconoscimento esplicito del ruolo della Rai come concessionario del servizio pubblico. Ma gli spunti di innovazione restano orpelli su un canovaccio logoro. Restano un paio di buchi neri. Si rinvia ad un anno dall’entrata in vigore della legge qualsiasi valutazione sul canone, delegandone la riscrittura al governo. È vero che il nuovo canone deve assicurare risorse per renderla indipendente economicamente ma si introduce contestualmente un finanziamento pubblico per l’emittenza locale. Questa vive una crisi devastante, ma sarebbe stato logico inserirla in una più generale riscrittura legislativa dell’editoria italiana. L’altro buco nero è ben scritto negli altri disegni di legge allegati alla 1880. Le proposte indicavano, tra l’altro, la nascita della Fondazione composta da un elenco di attori civili, organizzazioni e istituzioni. L’eco di quelle sigle rappresenta lo sforzo di libertà e partecipazione, negato da quanto sta per approdare nelle aule parlamentari.